Cartografia della discriminazione. 3. genesi e perpetuazione della subalternità
- Luigi Corvaglia
- 22 lug 2024
- Tempo di lettura: 24 min
Aggiornamento: 15 set

Colonialismo interno e asimmetria dell'immaginario
Luigi Corvaglia
Prologo
Nei primi anni ’60, mio padre – allora giovane assistente di filologia romanza all’Università di Genova – venne insultato da un rampollo di una nota azienda dolciaria del Nord, studente tutt’altro che brillante, che lo invitò a “tornare in Africa fra le scimmie”, condendo il tutto col classico riferimento ai pomodori coltivati nelle vasche da bagno, uno dei miti urbani più diffusi sull’emigrazione meridionale. Non era il bar né la caserma: era un’aula universitaria, luogo che avrebbe dovuto incarnare la razionalità e l’apertura mentale.
Quasi settant’anni dopo, nel corso di un dibattito culturale e scientifico, un interlocutore sabaudo mi ha definito “intellettuale della Magna Grecia”. L’espressione può sembrare simpatica, perfino dotta, ma il sottinteso è lo stesso: ridurre la validità di un’argomentazione al fatto che chi la formula è meridionale. È un modo elegante per spostare il giudizio dal contenuto delle tesi alla provenienza geografica di chi le sostiene, esotizzandolo, folclorizzandolo e dunque svalutandolo.
Questi episodi dimostrano due cose: primo, che la discriminazione antimeridionale non è confinata ai luoghi popolari ma penetra nei centri stessi della cultura e della produzione di sapere; secondo, che l’essere meridionale continua ad agire come un marchio che svaluta il contenuto di un’argomentazione, trasformandola in “colore locale” invece che in contributo universale. È questa la prova che la “questione meridionale” non è un capitolo chiuso della storia, ma un dispositivo ancora attivo, che plasma le gerarchie simboliche, il linguaggio mediatico e perfino la legittimità del pensiero.
La permanenza della subalternità, dunque, non è solo una questione di PIL o di infrastrutture, ma di immaginario collettivo: un intreccio di scelte politiche e di egemonia culturale che ha insegnato agli italiani come vedere il Mezzogiorno. Dalle pellicole risorgimentali che trasformano l'unificaziine in una azione popolare, ai documentaei che rappresentano il brigantaggio esclusivamente come delinquenza comune, fino ai talk show che ancora oggi usano il Sud come scenario di degrado, l’Italia ha costruito se stessa guardandosi attraverso uno specchio deformante.
È questa lunga durata – fatta di sfruttamento materiale e di messa in scena culturale – che la terza parte di questo lavoro intende indagare: come il divario sia stato prodotto, mantenuto e normalizzato, e come l’immaginario mediatico e la pop culture abbiano funzionato da cemento invisibile di questa asimmetria.
Colonialismo interno: dall'annessione alla problematizzazione
La "questione meridionale" ha rappresentato per oltre un secolo uno dei nodi più complessi della storia economica, sociale e culturale dell’Italia. Diversi studiosi hanno avanzato l’ipotesi che il divario tra Nord e Sud non sia frutto di una naturale arretratezza del Mezzogiorno, ma piuttosto il risultato di un processo storico assimilabile al colonialismo interno, una forma di subordinazione economica e simbolica applicata da una parte del paese sull’altra dopo l’Unità d’Italia del 1861.
È importante sottolineare che elementi di un approccio coloniale interno possono essere già individuati nelle modalità stesse con cui si è realizzata l’Unità d’Italia. L’impresa dei Mille nel 1860 fu un’operazione militare non autorizzata e comportò l’invasione armata di uno Stato sovrano, il Regno delle Due Sicilie. L’annessione non fu accompagnata da un processo di negoziazione, ma da una conquista unilaterale e dall’imposizione del modello politico, giuridico e fiscale piemontese. Non uso mezze frasi: l’annessione del Regno delle Due Sicilie non fu il risultato di una libera autodeterminazione dei popoli, ma una vera e propria invasione, accompagnata da violenze, repressioni e fucilazioni, e non del tutto dissimile — nei suoi presupposti ideologici e nelle sue giustificazioni morali — da quanto avviene oggi in contesti come l’Ucraina, aggredita da una potenza confinante in nome di un'unità storica presunta. Contrariamente al mito risorgimentale, la spedizione non ebbe un sostegno popolare massiccio: la partecipazione attiva delle popolazioni locali fu limitata, e perfino tra i patrioti e gli unitaristi meridionali vi erano forti divisioni sul tipo di Stato da costruire e sul modello politico da adottare. Non va inoltre dimenticato che quello di Garibaldi non era un esercito regolare, ma un corpo volontario irregolare, armato e finanziato con l’appoggio tacito di potenze straniere come il Regno di Sardegna e la Gran Bretagna, interessate a destabilizzare l’ordine borbonico e ad aprire il Mezzogiorno ai commerci internazionali. In questo senso, l’impresa dei Mille fu di fatto un’operazione di “proxy war” ante litteram, condotta da una forza paramilitare che agiva in funzione di interessi strategici esterni tanto quanto di ideali patriottici.
A questo si aggiunse la durissima repressione del brigantaggio (1861–1870), che vide il nuovo Stato italiano impiegare l’esercito per stroncare le rivolte popolari e monarchiche del Sud. Migliaia di civili furono fucilati, incarcerati o deportati, interi paesi bruciati (tra cui Pontelandolfo e Casalduni). Queste azioni, che oggi sarebbero oggetto di indagine per crimini contro l’umanità, contribuirono a costruire un’immagine del Sud come "problema" da controllare militarmente e culturalmente.
Sarò chiaro: sono un liberale fino al midollo, e dunque immune da qualsiasi nostalgia per il regno borbonico. È naturale che un riformismo illuminista mi sia infinitamente più simpatico di un conservatorismo feudale e latifondista. Ma il fatto stesso che oggi si debba premettere di non essere neoborbonici per poter parlare delle macroscopiche distorsioni dell’unificazione italiana è la prova di quanto sia malato il nostro immaginario collettivo. Se criticare le storture dell’unità significa automaticamente essere etichettati come nostalgici dei Borbone, allora dovremmo arruolare tra i neoborbonici persino Garibaldi – l’uomo che quel regno lo fece crollare – il quale finì per guardare con amarezza alle conseguenze della sua impresa. Egli scrisse:
Ho la coscienza di non aver fatto male; nonostante, non rifarei oggi la via dell’Italia Meridionale, temendo di esservi preso a sassate da popoli che mi tengono complice della spregevole genia che disgraziatamente regge l’Italia e che seminò l’odio e lo squallore là dove noi avevamo gettato le fondamenta di un avvenire italiano.
La frase, attestata da diverse fonti storiografiche, è la diagnosi lucida di chi vide il Mezzogiorno, teoricamente “liberato”, ritrovarsi impoverito, governato da élite estranee e spesso represso con le armi. È lì che nasce la vera “questione meridionale”.
Al momento dell’Unità d’Italia nel 1861, il divario economico tra Nord e Sud non esisteva. Ciò è attestato anche dal sito istituzionale del Parlamento italiano riporta che non esistevano differenze economiche rilevanti tra le regioni al momento dell’Unità, confermando l’idea che il divario sia frutto di sviluppi successivi e non di condizioni storiche preesistenti. Diverse erano le forme di governo (Statuto Albertino contro Monarchia assoluta), la modalità organizzazione dell'agricoltura (colture intensive e mezzadria contro latifondo cerealico ed estensivo) e la distribuzione del reddito, con maggiore diseguaglianza nel regno delle due Sicilie a causa del permanere del regime feudale, abolito da alcuni decenni nel regno di Sardegna. Ciononostante, studi recenti, come quelli di Vittorio Daniele e Paolo Malanima (2011), mostrano che il PIL pro capite era abbastanza simile tra le diverse regioni italiane, segno che l’Italia preunitaria era nel complesso povera e agricola, senza grandi disparità interne. Anche meridionalisti come Giustino Fortunato e Francesco Saverio Nitti sostenevano che il Sud non fosse significativamente più arretrato del Nord, e che le vere differenze emersero solo dopo l’Unità, a causa di scelte politiche ed economiche che privilegiarono il Nord industriale. A rafforzare questa tesi, un’analisi del Centre for Economic Policy Research (CEPR) sui salari reali tra il 1861 e il 1913 mostra che il divario economico cominciò ad ampliarsi in modo sistematico solo dopo il 1880, quando il Nord-Ovest avviò un processo di industrializzazione accelerata che non coinvolse il Mezzogiorno (Felice & Vasta, 2015).
Non occorre dunque indulgere in revisionismi romantici per essere meridionalisti. Grandi intellettuali meridionali, da Gaetano Salvemini a Guido Dorso, da Nitti a Gramsci, da Croce a Sylos Labini, pur provenendo da orizzonti ideologici diversi, hanno condiviso una convinzione di fondo: il Sud non è naturalmente arretrato, ma è stato reso subalterno da precise dinamiche storiche, politiche e istituzionali. Questi intellettuali hanno criticato l’idea di un Mezzogiorno culturalmente deficitario, ponendo invece l’accento sulle responsabilità dello Stato unitario, delle classi dirigenti meridionali, delle politiche centraliste e delle disuguaglianze strutturali create dallo stato post-unitario e consolidate nel tempo.
Il cinema e la costruzione del mito fondativo risorgimentale

Il cinema ha avuto un ruolo cruciale nel consolidare l’immaginario eroico del Risorgimento, trasformando la spedizione dei Mille in un mito fondativo dell’identità nazionale. Film come 1860 di Alessandro Blasetti (1934), uno dei primi sonori italiani, raccontano la storia dal punto di vista di un pastore siciliano che si unisce volontariamente ai garibaldini, restituendo l’idea di un’adesione popolare spontanea e entusiasta. Nel secondo dopoguerra, Camicie rosse (1952) di Alessandrini e Rosi e Viva Garibaldi! (1961) riprendono questa narrazione. Per il centenario dell’Unità, Viva l’Italia! di Roberto Rossellini (1961) conferma questa prospettiva con toni quasi agiografici: la spedizione dei Mille è presentata come un’epopea collettiva, simbolo di una nazione che si unisce. Insieme, questi film hanno svolto una funzione pedagogica e patriottica, offrendo al pubblico una versione edulcorata e consensuale dell’Unità, in cui le divisioni interne, le resistenze locali e l’assenza di un vero sostegno popolare sono sostanzialmente rimosse.
Il film Il brigante di Tacca di Lupo (Ivo Garrani, 1953) porta sullo schermo il romanzo di Verga, raccontando la repressione del brigantaggio in Calabria nel 1863. Pur mantenendo la prospettiva dello Stato unitario, restituisce al fenomeno una dimensione tragica e corale, mostrando la durezza dello scontro e l’ambiguità morale della “pacificazione” postunitaria.

Un altro passaggio imprescindibile è Il Gattopardo (1963) di Luchino Visconti, tratto dal romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Il film racconta il Risorgimento dal punto di vista dell’aristocrazia siciliana, attraverso la figura del principe di Salina (Burt Lancaster), che osserva con lucidità il crollo del vecchio ordine e l’avvento di una nuova classe dirigente borghese. Visconti restituisce un Sud sontuoso e decadente, sospeso tra orgoglio e immobilismo, e smonta il mito dell’Unità come palingenesi nazionale: il celebre motto «Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi» diventa la sintesi della continuità delle élite e dell’illusorietà del rinnovamento. Il Gattopardo è una delle prime opere a mettere in scena il Risorgimento come processo ambivalente, più compromesso che rivoluzionario, e ha contribuito a spostare l’immaginario del Sud da “problema” a luogo della riflessione critica sulla storia nazionale.

Un importante punto di svolta nella rappresentazione cinematografica del Risorgimento è Bronte: cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato (1972) di Florestano Vancini, che mette in scena la feroce repressione ordinata da Nino Bixio contro i contadini di Bronte insorti per ottenere la terra promessa. È il primo film a mostrare il lato oscuro dell’impresa garibaldina, smontando il mito dell’Unità come epopea pacifica e consensuale. Per certi versi, Bronte svolge per il Risorgimento lo stesso ruolo che Soldato blu (1970) di Ralph Nelson ebbe per il western classico: capovolgere la prospettiva, mostrando la conquista non come epopea civilizzatrice ma come atto di violenza coloniale, con le vittime finalmente al centro della narrazione. Più recentemente, Noi credevamo (2010) di Mario Martone ha proseguito in questa direzione, offrendo un racconto corale e disincantato del Risorgimento, che mette in luce divisioni, compromessi e ambiguità etiche dei protagonisti. Martone ha spostato l’attenzione dal mito dell’eroismo alla disillusione politica: attraverso la parabola di tre giovani patrioti meridionali, il film mostra come l’Unità non porti la libertà sperata, ma nuove forme di oppressione e di tradimento degli ideali originari. Questa linea di rilettura è stata proseguita anche in L’abbaglio (2023) di Roberto Andò, che racconta la spedizione dei Mille come un momento di entusiasmo collettivo segnato però da un errore di prospettiva — un “abbaglio”, appunto — che condurrà a un’Unità più amara che liberatrice. Tuttavia, non sempre il revisionismo cinematografico è riuscito a mantenere un equilibrio storico: il film Li chiamarono briganti! (1999) di Pasquale Squitieri, pur dando visibilità alle ragioni delle insorgenze meridionali, scivola in una lettura esplicitamente neoborbonica, alimentando un mito opposto ma altrettanto semplificatorio.
Forme di sfruttamento: risorse, persone e territorio
Oltre alla dimensione simbolica, il colonialismo interno ha avuto effetti materiali molto concreti. Lupo e Pandiscia (2011) analizzano il caso della Basilicata, regione ricca di petrolio, ma sistematicamente sfruttata a beneficio di complessi industriali esterni. Le grandi dighe e gli invasi costruiti nel dopoguerra per l’irrigazione e la produzione idroelettrica raramente hanno beneficiato le comunità locali. Questo modello di estrazione delle risorse, senza ritorno per il territorio, è tipico delle logiche coloniali.
Anche il capitale umano è stato soggetto a dinamiche simili. Cardinale (2013) documenta il fenomeno del brain drain, ossia l’emigrazione di giovani qualificati dal Sud al Nord. Questa fuga di cervelli ha contribuito ad arricchire il Nord di risorse umane già formate a spese del Mezzogiorno, generando un ciclo vizioso di impoverimento intellettuale e produttivo.
Un’ulteriore conferma della disparità nella redistribuzione delle risorse arriva dal Rapporto Italia 2020 di Eurispes. Secondo lo studio, se si confronta la spesa pubblica pro capite tra Centro-Nord e Sud nel settore pubblico allargato, emerge un divario netto: nel 2017, ad esempio, la spesa era pari a 15.297 € nel Centro-Nord contro 11.939 € al Sud. Applicando la quota demografica del Mezzogiorno alla spesa pubblica, Eurispes stima che tra il 2000 e il 2017 siano stati sottratti al Sud oltre 840 miliardi di euro: una media di circa 46,7 miliardi di euro all’anno. Questa sottrazione, secondo Eurispes, rappresenta una mancata redistribuzione coerente con il peso demografico del Sud, che ha aggravato le disuguaglianze storiche e limitato la crescita autonoma dell’area.
Il criterio della spesa storica nasce negli anni successivi alla riforma del Titolo V della Costituzione (2001), che ha ampliato le competenze delle Regioni italiane, specialmente in ambiti cruciali come sanità, istruzione e trasporti. La spesa storica, adottata come criterio di distribuzione dei fondi pubblici in Italia, ha operato come un meccanismo che istituzionalizza il divario territoriale, premiando le aree che in passato hanno ricevuto maggiori investimenti e penalizzando quelle storicamente trascurate. In questo modo, il Sud — pur avendo spesso maggiori bisogni sociali e infrastrutturali — continua a ricevere meno risorse rispetto al Nord, semplicemente perché “ha sempre ricevuto meno”. Questo criterio, anziché riequilibrare le disuguaglianze, le riproduce su base contabile, contribuendo a consolidare uno squilibrio che ha radici storiche ma conseguenze attuali profondissime in termini di servizi essenziali, diritti di cittadinanza e opportunità di sviluppo.
La qualità della vita
Un ulteriore elemento di cristallizzazione dell’asimmetria Nord–Sud è rappresentato dalle classifiche sulla qualità della vita pubblicate ogni anno da testate come Il Sole 24 Ore o ItaliaOggi. Pur offrendo dati utili, questi ranking sono stati più volte criticati per la loro impostazione prevalentemente quantitativa e nordcentrica. E' ovvio che lo squilibrio e la sperequazione che abbiamo raccontato influisca pesantemente sulla qualità della vita. Di certo un disoccupato avrà una vita peggiore di un occupato ed un malato che possa curarsi sotto casa sta meglio di uno che deve spostarsi. Tutto ciò è il prodotto del processo descritto. Come però osserva Marco Benussi, tali graduatorie riducono la complessità della vita urbana a una serie di numeri, trascurando la percezione soggettiva dei cittadini e la qualità delle relazioni sociali (Benussi, ArcipelagoMilano, 2023). Pur coprendo un ampio spettro di dimensioni — dalla ricchezza all’ambiente, dai servizi alla cultura — questi indicatori restano parziali, perché non misurano aspetti fondamentali come la felicità, la coesione sociale, la soddisfazione soggettiva e la percezione della sicurezza, che sono centrali per il benessere quotidiano (Lab24; Il Giornale dell’Ambiente; Giacometti, Tesi UniPd, 202
Fra i criteri assenti o sottovalutati vi sono elementi cruciali per il benessere quotidiano: la qualità delle relazioni umane, la convivialità, il livello di stress, il prezzo medio delle case al metro quadro, l'inquinamento atmosferico, la bontà e accessibilità del cibo, la presenza di reti informali di protezione e mutuo aiuto. Questo porta a paradossi evidenti: città come Milano, pur collocate ai vertici delle classifiche, presentano livelli molto alti di congestione del traffico, inquinamento atmosferico, costo della vita e disuguaglianza sociale, che i ranking non riescono a restituire adeguatamente (Repubblica Finanza, 2025). Al contrario, contesti più piccoli o meridionali, dove la coesione sociale è più forte e la percezione di appartenenza più elevata, vengono sistematicamente collocati in fondo alla graduatoria.
A generare perplessità è poi sia la differenza fra le classifiche, che vedono le medesime province in posizioni differenti il medesimo anno, ma anche la forte variabilità da un anno all’altro: alcune province salgono o scendono di decine di posizioni senza che i cittadini abbiano la sensazione di un reale peggioramento o miglioramento della loro vita (Italiadecide & Intesa Sanpaolo, L’Italia e la sua reputazione – Le Città, 2025). Vale la pena citare il commento dello scrittore Erri De Luca sul piazzamento di Napoli agli ultimi posti della graduatoria:
Ignoro i criteri di valutazione ma dubito che siano adeguati allo scopo. C’è qualità di vita in una città che vive anche di notte, con bar, negozi, locali aperti e frequentati, a differenza di molte città che alle nove di sera sono deserte senza coprifuoco.
Considero qualità della vita poter mangiare ovunque cose squisite e semplici a prezzi bassi, che altrove sarebbero irreali.
Considero qualità della vita il mare che si aggira nella stanza del golfo tra Capri, Sorrento e Posillipo.
Considero qualità della vita il vento che spazza il golfo dai quattro punti cardinali e fa l’aria leggera. Considero qualità della vita l’eccellenza del caffè napoletano e della pizza.
Considero qualità di vita la cortesia e il sorriso entrando in un negozio, la musica per strada. Considero qualità della vita la storia che affiora dappertutto.
Considero qualità della vita la geografia che consola a prima vista, e considero qualità della vita l’ironia diffusa che permette di accogliere queste graduatorie con un “Ma faciteme ‘o piacere”.
Per consiglio, nelle prossime statistiche eliminate Napoli, è troppo fuori scala, esagerata, per poterla misurare.
La città che ha guadagnato il podio nell'ultima graduatoria del Sole 24 ore è descritta così su L'Espresso:
Abitare dentro la circonvallazione di Milano ormai è elitarismo puro. Come New York ma senza essere New York, manco per cinque minuti e manco per sbaglio. Milano città notturna. Quando mai? La sera alle 21 solo un turista chiederebbe un piatto al ristorante perché tutti sanno che «le cucine stanno per chiudere» e, tolti i ritrovi molesti della movida tipo sui Navigli o “in Isola”, per il resto la capitale morale è un grande dormitorio silenzioso in cui non c’è niente fuori dagli orari d’ufficio. Trovi da pippare h24 e brutti localini coi cocktail annacquati più cari d’Italia, ma un bar prima delle sei del mattino è quasi impossibile. Milano città del lavoro? Sì, nel senso che il lavoro diventa tutta la tua vita, non fai altro.
Queste classifiche sono poi state oggetto di diverse critiche metodologiche. S. Terzi ha osservato che i metodi di costruzione degli indici sintetici applicano spesso trasformazioni non lineari che possono alterare drasticamente il posizionamento finale delle città, mettendo in discussione la neutralità e la comparabilità dei risultati (Terzi, Labstat, 2015). Un’ulteriore criticità è rappresentata dalla scarsa trasparenza metodologica: la scelta dei pesi, dei criteri di aggregazione e delle trasformazioni statistiche non è sempre chiara, lasciando al lettore finale una percezione di scientificità che non sempre corrisponde alla realtà (Terzi, Labstat, 2015).
Così, anche attraverso strumenti apparentemente neutri e scientifici, si consolida una gerarchia simbolica che legittima l’idea di un Nord più “vivibile” e di un Sud irrimediabilmente carente.
Questo non significa sostenere che la qualità della vita nel Mezzogiorno sia oggi pari o superiore a quella del Nord. È anzi vero, sul piano statistico, che il Sud presenti mediamente valori più bassi per reddito, servizi, infrastrutture e aspettativa di vita. Tuttavia, occorre distinguere due aspetti fondamentali.
Primo: una volta soddisfatti i bisogni primari – quelli che lo psicologo Abraham Maslow definiva “di base” – la qualità della vita diventa in gran parte soggettiva, legata a fattori come relazioni sociali, stress percepito, sicurezza emotiva. Secondo: le classifiche fotografano un dato reale, ma non ne spiegano le cause. I punteggi inferiori del Sud sono in larga parte il risultato di politiche infrastrutturali e di sviluppo sbagliate o insufficienti, che hanno storicamente penalizzato il Mezzogiorno.
Inoltre, come ironizzava Trilussa, le statistiche restano “quella cosa per cui, se io mangio due polli e tu uno, abbiamo mangiato un pollo a testa”. In altre parole, le medie non raccontano le disuguaglianze interne: alcune aree meridionali si collocano a metà classifica o sopra province settentrionali. Per esempio, l’area metropolitana del Sud in cui vivo si situa circa a metà della classifica del Sole 24 Ore, poco sotto Genova e sopra province come Savona e Imperia, dimostrando che il divario non è uniforme e che esistono “Sud” diversi, così come esistono “Nord” meno performanti. Fermo restante il divario.
La migrazione come ingegneria sociale
La migrazione di massa dal Sud al Nord nel secondo dopoguerra fu in larga misura l’esito di scelte politiche ed economiche deliberate, non di un inevitabile destino storico. La ricostruzione e il miracolo economico furono trainati da una strategia di industrializzazione fortemente nordcentrica, che concentrò investimenti produttivi, infrastrutture e capitale umano nel triangolo Torino–Milano–Genova. Il cosiddetto “piano Vanoni” prevedeva esplicitamente la mobilità interna come strumento per riequilibrare il mercato del lavoro, ma nei fatti funzionò come una gigantesca valvola di sfogo per la disoccupazione meridionale, a beneficio del sistema industriale settentrionale.
Nel Mezzogiorno, le politiche della Cassa per il Mezzogiorno e le grandi iniziative industriali – come il polo siderurgico di Taranto, il petrolchimico di Gela o le raffinerie di Augusta – furono concepite e gestite da aziende parastatali e gruppi industriali con sede al Nord. Questo generò spesso le celebri “cattedrali nel deserto”, impianti isolati dal tessuto produttivo locale, privi di indotto e di reale autonomia decisionale. La logica era quella di utilizzare il Sud come piattaforma di estrazione: prelevare risorse (compresa la forza lavoro) senza costruire un ecosistema economico in grado di trattenere capitale e competenze.
Il risultato fu una dipendenza strutturale: il Sud divenne bacino di manodopera a basso costo per le fabbriche settentrionali e serbatoio di forza lavoro migrante per le aree più dinamiche d’Europa. Tra il 1955 e il 1971 oltre 9 milioni di italiani si spostarono dal Sud al Nord o all’estero, in quello che è stato definito uno dei più grandi esodi interni della storia contemporanea europea. Interi paesi si svuotarono, mentre nelle periferie di Torino, Milano e Genova sorsero quartieri-dormitorio popolati da meridionali, spesso stigmatizzati come “corpi estranei” da integrare o sorvegliare.
L’emigrazione di massa, lungi dall’essere una fuga spontanea, fu quindi l’effetto di un modello di sviluppo che svuotò il Mezzogiorno delle sue risorse umane per alimentare la crescita del Nord, perpetuando il ciclo di spopolamento e marginalizzazione. Le rimesse inviate a casa dagli emigrati furono per anni una delle principali fonti di sostegno all’economia meridionale, ma non produssero un reale accumulo di capitale locale: servivano a sopravvivere, non a investire.
Lepore (2012) ripercorre la storia economica post-unitaria mettendo in luce le responsabilità politiche nella cristallizzazione del divario. Anche nei periodi di interventismo pubblico, come con la Cassa per il Mezzogiorno, le politiche adottate sono state spesso concepite senza reale partecipazione del Sud e, soprattutto, senza intaccare le asimmetrie strutturali. La loro discontinuità e l’assenza di politiche redistributive efficaci hanno reso questi interventi inefficaci nel lungo termine.
Questa ingegneria sociale ebbe anche un costo psicologico e culturale enorme: generò fratture identitarie, umiliazioni simboliche (i cartelli “non si affitta ai meridionali”), tensioni sociali nelle fabbriche e nei quartieri popolari, e contribuì a consolidare lo stereotipo del meridionale come “invasore”, pigro o inaffidabile. In altre parole, la migrazione non solo non sanò il divario Nord-Sud, ma lo rese ancora più visibile, trasformando il Sud in un “problema mobile” che il Nord doveva gestire.
E questo processo non si è mai interrotto: dagli anni Duemila si assiste a una nuova ondata di fuga di cervelli, con decine di migliaia di giovani laureati meridionali che si trasferiscono ogni anno verso il Centro-Nord o all’estero. Questa emigrazione selettiva sottrae al Sud capitale umano qualificato, impoverendo il tessuto sociale e produttivo e aggravando il fenomeno dell’invecchiamento demografico. Le regioni meridionali perdono così la parte più dinamica della loro popolazione, in un ciclo che ricorda quello del dopoguerra ma che oggi è ancora più drammatico, perché colpisce le risorse più difficili da ricostruire: intelligenze, competenze, innovazione.
Il fenomeno Lega e la legittimazione politica della frattura Nord-Sud
Un ulteriore tassello nella comprensione della perdurante subalternità del Sud si rintraccia nel successo politico della Lega Nord, oggi Lega, nata alla fine degli anni Ottanta come espressione del malcontento fiscale e identitario delle regioni settentrionali più ricche. La Lega, soprattutto nella sua fase originaria, ha elaborato una retorica antimeridionalista esplicita, fondata sull’idea che il Mezzogiorno fosse un peso economico per il Nord, simbolo di assistenzialismo, inefficienza e corruzione.
Attraverso slogan come “Roma ladrona” o “il Sud vive sulle spalle del Nord”, la Lega ha reinserito nel discorso pubblico elementi di ostilità e differenziazione territoriale, alimentando l’immaginario di una superiorità produttiva settentrionale e di una inferiorità strutturale meridionale. In questa narrazione, il Sud non è solo diverso, ma colpevole del proprio sottosviluppo.
È importante sottolineare che la Lega non ha inventato il pregiudizio antimeridionale, ma ha saputo strumentalizzare un razzismo culturale latente e storicamente presente nelle regioni settentrionali sin dall’epoca post-unitaria. Questo capitale simbolico è stato mobilitato per costruire un’identità politica fondata su contrapposizioni geografiche e morali.
Inoltre, il successo della Lega si è fondato più su elementi emotivi e simbolici che su evidenze empiriche: le affermazioni secondo cui il Sud "affamerebbe" il Nord non trovano riscontro nei dati reali. Diversi studi (inclusi rapporti SVIMEZ) dimostrano anzi un trasferimento netto di risorse dal Sud al Nord, attraverso meccanismi come la spesa pubblica diseguale, la mobilità intellettuale e le rendite finanziarie.
Questa visione ha avuto effetti politici significativi: ha contribuito a ostacolare politiche redistributive nazionali, a promuovere l’autonomia differenziata e a rafforzare l’idea che lo Stato debba premiare le regioni più “efficienti” anziché riequilibrare i divari storici. L'uso di concetti come "Padania" e la proposta di secessione mascherata hanno accentuato la frattura simbolica e culturale all'interno del Paese.
Negli anni Novanta, il politologo Gianfranco Miglio si avvicinò al movimento di Bossi e finì col diventare il riferimento culturale del partito. Egli arrivò a formulare posizioni radicali, affermando che “i meridionali non sono rieducabili” e che “con loro non si possono fare riforme”, parole che furono riprese dalla Lega Nord per giustificare il proprio progetto secessionista e, in seguito, le richieste di federalismo fiscale e di autonomia differenziata. In un’intervista del 1993 a Corriere della Sera, Miglio affermò che, in un’Italia federale, sarebbe stato “più efficiente” lasciare che la mafia governasse il Sud, riconoscendone in qualche modo il potere di gestione del territorio.
Le idee di Miglio hanno quindi svolto una funzione di ponte tra l’elaborazione accademica e la prassi politica: hanno fornito alla Lega un vocabolario apparentemente scientifico per trasformare il malcontento fiscale del Nord in una visione ideologica che vede il Sud come zavorra e il Nord come motore produttivo da liberare. Non sorprende, dunque, che le battaglie contemporanee per l’autonomia differenziata affondino le loro radici in questa elaborazione teorica: esse ripropongono, in forma istituzionale, la stessa dicotomia tra regioni “virtuose” e regioni “parassitarie”, con il rischio di cristallizzare le disuguaglianze anziché superarle.
Nonostante l’evoluzione elettorale della Lega verso il centro-sud e la sua trasformazione in partito nazionale, l’eredità culturale della Lega Nord continua ad alimentare una narrazione diseguale, che ignora i fattori storici e strutturali del divario, riducendoli a carenze antropologiche. Questo fenomeno ha consolidato ulteriormente, nel senso comune, l’idea di un Mezzogiorno da sorvegliare e contenere, più che da integrare pienamente.
Problemi della pubblicistica neoborbonica e l'asimmetria dell'immaginario

Il neoborbonismo è un movimento culturale e politico nato negli anni Ottanta e rilanciato durante le celebrazioni del 150° dell’Unità, che propone una rilettura radicalmente revisionista del Risorgimento. Le sue pubblicazioni esaltano i presunti primati industriali, scientifici e sociali del Regno delle Due Sicilie – dalle “prime ferrovie d’Italia” alle “più grandi flotte mercantili del tempo” – e descrivono l’Unità come un genocidio pianificato, parlando di centinaia di migliaia di morti, campi di concentramento come Fenestrelle e interi territori devastati dai piemontesi, ma spesso con numeri iperbolici e fonti poco solide. Storici come Alessandro Barbero hanno smentito queste ricostruzioni, ridimensionando i dati (ad esempio i prigionieri morti a Fenestrelle sarebbero stati solo quattro, non decine di migliaia, ma la questione è stata riaperta da un libro di un altro storico, Gangemi ). Molti testi si basano su una visione idealizzata del Regno borbonico, ignorandone le contraddizioni interne – analfabetismo diffuso, arretratezza amministrativa, pesante fiscalità – ed enfatizzandone primati spesso gonfiati o decontestualizzati. Più che un lavoro storiografico, questa produzione è una narrazione identitaria, costruita per mobilitare consenso e alimentare un sentimento di rivalsa, piuttosto che per ricostruire criticamente il passato.
La produzione di autori come Gennaro De Crescenzo è più vicina alla propaganda identitaria che alla ricerca: non mira a ricostruire criticamente il passato ma a renderlo utile al presente, mobilitando risentimento. L’ampia diffusione su blog, bestseller e riviste come Il Giornale delle Due Sicilie ha trasformato questa narrazione in un’eco-chamber ideologica, capace di raggiungere un pubblico vasto ma polarizzato. Perfino alcuni storici che hanno provato a dialogare con questo movimento si sono trovati esclusi da un confronto sereno, in un clima segnato da sarcasmo e toni aggressivi. Nel 2023, in un dibattito all’Università della Calabria, studiosi come Carmine Pinto e Gian Luca Fruci hanno ribadito che questa pubblicistica è più propaganda che storiografia: un revisionismo manipolativo nato per capitalizzare il malcontento piuttosto che per produrre conoscenza. Così, il neoborbonismo finisce per sostituire un mito con un altro: invece di smontare l’egemonia nordcentrica, la rovescia specularmente, alimentando un’immagine di un Sud vittima eterna, più utile a consolidare identità e risentimento che a costruire soluzioni politiche
Sebbene la pubblicistica neoborbonica abbia contribuito a sollevare interrogativi legittimi sulle modalità violente dell’unificazione e sulle sue conseguenze per il Mezzogiorno, essa è spesso screditata nel dibattito pubblico e accademico per il suo carattere mitopoietico e talvolta cospirazionista, fondato su semplificazioni storiche e retoriche nostalgiche. Tuttavia, ciò che merita attenzione critica è l’asimmetria culturale con cui viene trattata questa narrazione rispetto all’altrettanto mitica rappresentazione del Sud come parassitario e antropologicamente deficitario. Mentre il neoborbonismo viene facilmente liquidato come folklore revisionista, la narrazione opposta — quella del meridionale inefficiente, assistito e tendenzialmente corrotto — continua a godere di legittimazione mediatica, politica e culturale, nonostante anch’essa sia fondata su stereotipi e distorsioni prive di base storica. Questo squilibrio riflette un’egemonia del senso comune di matrice nordcentrica, che rende ancora più urgente un confronto critico e sistemico sull’origine e la persistenza delle disuguaglianze territoriali.
Va però aggiunto che il discredito automatico verso le argomentazioni di matrice neoborbonica rischia di trasformarsi in una forma di avvelenamento del pozzo, una fallacia argomentativa che consiste nel delegittimare preventivamente l’interlocutore, così che ogni sua affermazione sia respinta a priori, indipendentemente dal contenuto. Questo meccanismo, tipico del discorso pubblico, permette di evitare il confronto sul merito storico o politico e di liquidare qualsiasi critica come nostalgica, ideologica o complottista. Il risultato è che questioni reali – come la violenza dell’annessione, la sproporzione della repressione del brigantaggio o le disuguaglianze generate dalle politiche fiscali e industriali post-unitarie – vengono messe nello stesso calderone delle narrazioni mitopoietiche più ingenue, impedendo una discussione seria e documentata. In questo modo, l’uso dell’etichetta “neoborbonico” non funziona come strumento di analisi, ma come barriera retorica che protegge lo status quo e perpetua l’asimmetria simbolica tra Nord e Sud.
Conclusione
Alla luce degli studi analizzati, la relazione Nord-Sud post-unitaria può essere interpretata in termini di colonialismo interno, non solo per la distribuzione ineguale di risorse e opportunità, ma anche per le rappresentazioni culturali, le politiche economiche e le strutture istituzionali che hanno contribuito a consolidare la subalternità meridionale. Una piena comprensione della questione meridionale richiede dunque una revisione critica della narrazione nazionale e l’assunzione di responsabilità storiche nella costruzione di un’Italia realmente unita e inclusiva.
Franco Cassano, nel suo Pensiero meridiano (1996), ha proposto di uscire sia dalla retorica colpevolizzante sia dal vittimismo identitario, invitando a “cambiare sguardo” sul Sud. Per Cassano, la questione meridionale non si risolve né mitizzando il passato né accettando la narrazione nordcentrica che descrive il Sud come ritardo da colmare. Occorre invece praticare un pensiero capace di riconoscere il Sud come soggetto, non come oggetto di redenzione o di condanna. Guardare il mondo da Sud significa rifiutare la gerarchia implicita che pone il Nord come metro di giudizio e adottare una prospettiva che valorizzi le risorse, le reti comunitarie, le forme di socialità e di cultura nate nella marginalità. In questo senso, Cassano invita a rovesciare la “questione meridionale”: non chiedersi come curare un Sud malato, ma come ripensare l’Italia intera a partire dal Sud, trasformando la sua esperienza storica in risorsa critica per immaginare un modello di sviluppo più equo e meno predatorio.
Il compito non è medicare un Sud “malato”, ma ripensare l’Italia spezzando l’asimmetria simbolica che ha naturalizzato il divario. La prova storica (colonialismo interno), sociologica (capitale sociale, zone grigie) e mediale (stereotipi) converge: la “questione meridionale” è prodotto di scelte e narrazioni, non di essenze. Pensare meridianamente significa passare dalla colpa all’assunzione di responsabilità, aprendo uno spazio politico per un’unificazione finalmente paritaria.
Bibliografia ragionata - Parte III
Storia economica, Nord–Sud e “colonialismo interno”
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Nota sul passo attribuito a Garibaldi: la citazione circola in diverse raccolte epistolari/antologie ottocentesche e novecentesche; es.: AA.VV., Garibaldi. Epistolario scelto, Mondadori
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Qualità della vita, indicatori compositi e criticità metodologiche
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Migrazioni interne, “ingegneria sociale” e brain drain
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Neoborbonismo
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Zitara, Nicola. L’Unità d’Italia: nascita di una colonia. Catanzaro: Jaca Book, 1971 (poi varie ristampe)
Zitara, Nicola. L’invenzione del Mezzogiorno. Una storia finanziaria. Catanzaro: Jaca Book, 1972.
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Filmografia essenziale citata
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Camicie rosse (G. Alessandrini & F. Rosi, 1952).
Viva l’Italia! (R. Rossellini, 1961).
Viva Garibaldi! (T. Musatti, 1961).
Il brigante di Tacca del Lupo (P. Germi, 1952) — dal racconto di Verga.
Il Gattopardo (L. Visconti, 1963).
Bronte: cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato (F. Vancini, 1972).
Li chiamarono briganti! (P. Squitieri, 1999).
Noi credevamo (M. Martone, 2010).
(eventuale) L’abbaglio (R. Andò, 2023) — per l’angolo revisionista tardo-contemporaneo.
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