Cartografia della discriminazione. 1- L'invenzione del Sud
- Luigi Corvaglia
- 20 lug 2024
- Tempo di lettura: 18 min
Aggiornamento: 9 set

Sud e asimmetria dell'immaginario
Luigi Corvaglia
Prologo
I colbacchi di Totò e Peppino alla stazione di Milano sono forse la scena più iconica dell’Italia che si vede divisa in due. I due fratelli spaesati, l’abbigliamento fuori luogo, in Totò, Peppino e la… malafemmina (1956): il meridionale arriva al Nord come un alieno buffo e teatrale, insieme da compatire e da ridicolizzare. Quella scena segna una dicotomia che è il paradigma dell’immaginario nazionale: da un lato un Nord austero e razionale, dall’altro un Sud eccessivo e istrionico, incapace di stare alle regole “civili”.
Il cinema aveva cominciato a raccontare il Sud già qualche anno prima. Dal borgo pittoresco di Pane, amore e fantasia (1953), dove il Sud appare arretrato ma ancora addomesticabile, si passa al tono cupo de Il mafioso (1962), in cui Sordi scopre la Sicilia dominata dalle logiche del clan, e a Sedotta e abbandonata (1964), che rende grottesco il codice dell’onore. Negli anni Settanta, Il merlo maschio (1971) fa dell'uomo mediterraneo un corpo ossessivo e geloso, mentre Lina Wertmüller, con Mimì metallurgico (1972) e Travolti da un insolito destino (1974), racconta un Sud insieme subalterno e primitivo, che ribalta i ruoli sociali e diventa allegoria di regressione e catarsi.
Questa sequenza di immagini – dai colbacchi di Totò e Peppino alla parabola tragico-comica di Mimì e al naufragio metaforico di Wertmüller – ha fatto più per costruire l’immaginario del Sud di decine di volumi di storia economica. Prima ancora di essere una categoria statistica, il meridionale è stato un personaggio: rumoroso, eccessivo, istrionico, talvolta minaccioso, sempre altro rispetto alla “norma” civile. Quella maschera, forgiata sullo schermo, non è confinata alla commedia: è diventata il prisma attraverso cui il Paese ha letto il Sud reale, influenzando politiche, cronaca e perfino la distribuzione delle risorse.
Queste commedie – e i film drammatici che seguirono – non si limitano a rappresentare un Sud “altro”: lo producono. La cultura popolare, con la sua capacità di raggiungere milioni di spettatori, ha funzionato come una vera e propria pedagogia nazionale dell’alterità. Nell’Italia del dopoguerra, il cinema e poi la televisione hanno insegnato a un Paese ancora analfabeta in larga parte come “vedere” il meridionale: non solo buffo e istrionico, ma anche atavicamente delinquenziale, passionale fino alla brutalità, irrimediabilmente arretrato.

Negli anni Sessanta la televisione diventa lo strumento centrale della “nazionalizzazione delle masse”. Accanto ai programmi pedagogici che insegnano l’italiano standard, la RAI propone personaggi come Pappagone, creato e interpretato da Peppino De Filippo, che parla il “pappagonese”, un ibrido italiano-napoletano semplificato e immediatamente comprensibile a tutto il pubblico. È il “buon selvaggio” della televisione italiana: esotico ma rassicurante, divertente perché innocuo. La sua ingenuità e la sua goffaggine non sono mai minacciose: servono a strappare una risata e a confermare che il Sud può essere integrato, ma solo in forma addomesticata.
Questa è una forma di paternalismo mediatico: mentre la TV unifica culturalmente il Paese, consolida anche una gerarchia implicita, in cui il Nord è l’adulto razionale e il Sud il bambino goffo da educare.
Il Sud cinematografico è raramente neutro: è teatro di riso (Totò e Peppino), di tragedia grottesca (Sedotta e abbandonata), di paranoia virile (Il merlo maschio), di conflitto sociale (Mimì metallurgico), la violenza estrema (Salvatore Giuliano di Rosi, Banditi a Orgosolo di De Seta). Queste narrazioni sedimentano una doppia immagine: il meridionale come corpo comico – esuberante, eccessivo – e come corpo pericoloso – dominato da passioni arcaiche, violento, potenzialmente criminale.

Quello che Stuart Hall chiamerebbe “encoding” è avvenuto qui: il Sud è stato codificato come “altro interno”, e questa rappresentazione è stata consumata collettivamente, diventando senso comune. Non è un caso che il cinema scelga costantemente di mostrare il meridionale nel momento della sua collisione con la norma: il borgo che accoglie il maresciallo, la Sicilia che risucchia l’operaio emigrato, l’isola deserta che ribalta i ruoli. Il messaggio implicito è che il Sud sia un luogo di eccezione, di devianza o di regressione, la cui funzione narrativa è mettere alla prova (o minacciare) l’ordine razionale e borghese del Nord.
La pop culture, insomma, ha dato un volto, un accento e persino un casellario giudiziario all’“altro interno”, fissando nella memoria collettiva gesti, suoni e crimini. È questo corpo comico e tragico del meridionale a sedimentarsi come categoria identitaria.
La creazione dell'altro: la colonizzazione dell'immaginario
Jane Schneider (1998), antropologa statunitense, ha elaborato il concetto di colonialismo meridionale per descrivere il rapporto tra Nord e Sud d’Italia dopo l’Unità. Nel suo saggio Italy’s “Southern Question”: Orientalism in One Country , Schneider mostra come le élite settentrionali abbiano rappresentato il Mezzogiorno come un’“alterità interna”, arretrata, violenta e bisognosa di civilizzazione, utilizzando un linguaggio simile a quello del colonialismo europeo. Schneider collega esplicitamente la rappresentazione del Mezzogiorno all’orientalismo teorizzato da Edward Said, mostrando come il Sud sia stato costruito come un “Oriente interno”. In questo schema, le élite settentrionali produssero un discorso che esotizzava e inferiorizzava i meridionali, dipingendoli come arretrati, superstiziosi, violenti e bisognosi di guida – in altre parole, come un popolo da civilizzare.

La criminologia positivista di Cesare Lombroso si inserisce perfettamente in questa cornice: il brigante meridionale, interpretato come “uomo atavico”, divenne la prova scientifica che il Sud fosse biologicamente predisposto al crimine. In chiave saidiana, questo è un classico esempio di discorsività coloniale, in cui il sapere scientifico si intreccia con il potere politico per legittimare il controllo e l’assimilazione. Schneider parla così di una vera e propria razzializzazione interna, in cui le differenze socioeconomiche vengono naturalizzate e rese immutabili, trasformando il divario Nord-Sud in un fatto di natura più che di storia. Questo processo, secondo l’autrice, non solo ha giustificato le politiche repressive post-unitarie (stato d’assedio, tasse, smantellamento delle strutture produttive meridionali), ma ha anche sedimentato stereotipi che continuano a influenzare il dibattito pubblico e le rappresentazioni mediatiche del Sud fino ai giorni nostri.
Questa costruzione ideologica ha giustificato politiche economiche e militari che hanno trasformato il Sud in una sorta di colonia interna, funzionale allo sviluppo industriale del Nord e alla sua egemonia politica e culturale.
Sulla stessa linea si pone il discorso dello storico Enrico del Lago (2104), che riprende il concetto di orientalismo nazionale della Shneider e quello di colonialismo interno di Michael Hechter. Nel suo classico Internal Colonialism: The Celtic Fringe in British National Development (1975), Hechter sostiene che lo sviluppo di uno Stato-nazione può generare un rapporto di tipo coloniale tra il “centro” e le regioni periferiche: il centro politico ed economico si appropria delle risorse della periferia, la mantiene in una condizione di dipendenza e giustifica questa subordinazione con un discorso civilizzatore. Enrico Del Lago riprende questo schema ma ne enfatizza la specificità del caso italiano, mostrando come il processo di unificazione abbia avuto tratti di conquista militare e di repressione sistematica (brigantaggio, stato d’assedio), più simili a un’occupazione coloniale che a una semplice integrazione periferica. Ciò accosta l’esperienza italiana ad altri casi di post-conquista come il Sud degli Stati Uniti dopo la Guerra Civile.
Norma Bouchard (2018), amplia questo quadro inserendo la questione meridionale all’interno delle continuità storiche tra colonialismo esterno ed esclusione interna. Anche per Bouchard, l’unificazione non fu un processo neutro, ma segnò l’inizio di una marginalizzazione del Sud fondata anche su narrazioni razzializzanti e patriarcali, funzionali alla costruzione di una identità nazionale scissa, e, sulla base di ciò, per giustificare l’intervento statale. L’orientalismo interno (Schneider) e il colonialismo interno (Hechter) non sono soltanto politiche economiche o dispositivi amministrativi, ma regimi di sguardo che producono un Sud “altro”, da disciplinare e integrare dall’alto. Franco Cassano (1996) invita a rovesciare questa prospettiva, restituendo al Mezzogiorno la posizione di soggetto e mostrando come la gerarchia Nord/Sud sia stata naturalizzata attraverso narrazioni, indicatori selettivi e pratiche di potere (Cassano, 1996). È entro questa cornice che le analisi di Hechter, Schneider e Del Lago diventano tasselli coerenti di una stessa diagnosi.
La costruzione culturale della subalternità e il familismo amorale
La subordinazione del Sud è stata quindi soprattutto una costruzione culturale. Le rappresentazioni stereotipate — il Sud come pigro, corrotto, inefficiente — hanno legittimato politiche discriminatorie e l’assenza di investimenti strutturali.
Alfredo Niceforo, criminologo e sociologo, pubblicò nel 1898 L’Italia barbara contemporanea, poi rielaborato in L’Italia nera (1899), testi che segnarono profondamente l’immaginario nazionale. Niceforo, influenzato dalla criminologia positivista di Cesare Lombroso, sosteneva l’esistenza di due Italie: una “civile” (il Nord) e una “barbara” (il Sud), quest’ultima caratterizzata da criminalità diffusa, superstizione e arretratezza morale. La sua tesi, che mescolava determinismo biologico e antropologia criminale, fornì una giustificazione pseudoscientifica al discorso politico dell’epoca, consolidando l’idea che il Mezzogiorno fosse un problema “naturale” da disciplinare.
Un altro concetto, più incentrato sulla cultura che sulla biologia, che è spesso citato in questo contesto è quello di familismo amorale, elaborato da Edward C. Banfield in The Moral Basis of a Backward Society (1958). Questo ha rappresentato per decenni la spiegazione culturalista dominante della “questione meridionale”. Secondo Banfield, l’arretratezza del Sud era dovuta a un habitus radicato che spingeva gli individui a massimizzare il vantaggio materiale immediato del proprio nucleo familiare, nella convinzione che tutti gli altri facessero lo stesso, con conseguente sfiducia verso le istituzioni e incapacità di azione collettiva.

Il cinema italiano ha messo in scena il familismo amorale in modo diretto e potente, trasformandolo in drammaturgia nazionale. Già in La terra trema (1948) di Luchino Visconti, la comunità di Aci Trezza punisce i Malavoglia per aver tentato di emanciparsi, difendendo l’ordine tradizionale. Poco dopo, In nome della legge (1949) di Pietro Germi mostra un intero paese che si rifiuta di collaborare con il giudice, preferendo la protezione dei legami di sangue alla legge dello Stato. Negli anni Sessanta, film come Sedotta e abbandonata (1964) e A ciascuno il suo (1967) estremizzano questa logica: l’onore familiare schiaccia i diritti individuali e la comunità si chiude per proteggere i propri interessi. Con Il giorno della civetta (1968), Damiani rende visibile l’omertà come meccanismo collettivo di sopravvivenza, mentre nei decenni successivi La terra (2006) di Sergio Rubini e Anime nere (2014) di Francesco Munzi mostrano quanto la logica patrimoniale e il vincolo di sangue possano lacerare famiglie e comunità, generando conflitti e cicli di vendetta senza uscita.
Tuttavia, questa lettura è stata criticata per il suo carattere determinista e stigmatizzante. Giulio Carlo Argan, ad esempio, ha rifiutato l’idea che questo comportamento fosse un “tratto antropologico” esclusivamente meridionale: lo ha invece ricondotto a una più ampia mentalità albertiana, cioè a una visione individualista e utilitaristica, che avrebbe segnato l’intera psicologia italiana fin dal Rinascimento. In questa prospettiva, la chiusura familistica non sarebbe un difetto morale del Sud, ma un fenomeno che investe l’Italia nel suo insieme, seppur più acuto dove lo Stato ha fallito nel garantire giustizia e protezione.
Robert Putnam, nella sua ricerca sul capitale sociale (Making Democracy Work, 1993), ha confermato che la bassa partecipazione civica nel Mezzogiorno è il risultato di processi storici di lungo periodo e non di un destino immutabile. Per Putman, il Nord, erede delle tradizioni comunali e repubblicane medievali, avrebbe sviluppato forme di cooperazione orizzontale e capitale sociale diffuso, mentre il Sud, segnato da secoli di monarchie centralizzate e dominio feudale, avrebbe consolidato relazioni verticali e clientelari. In questo quadro, ciò che Banfield chiamava “familismo amorale” diventa per Putnam il prodotto di un equilibrio negativo di sfiducia e di istituzioni deboli.
In continuità con la lettura storico-istituzionale di Robert Putnam, la riflessione recente ha superato il paradigma culturalista di Banfield (1958). A. M. Chiesi (2007) rilegge il familismo amorale come capitale sociale “particolareggiante” (bonding): una strategia adattiva utile in contesti di istituzioni deboli, ma poco capace di generare cooperazione generalizzata (bridging). Lungi dall’essere una patologia morale, il familismo può diventare risorsa se sostenuto da politiche capaci di costruire fiducia. Ferragina (2012) lo interpreta come risposta razionale a un welfare selettivo, Huysseune (2014) ne evidenzia la funzione ideologica, in continuità con l’orientalismo interno analizzato da Schneider (1998), e Pasamonik (2016) invita a valorizzare le forme informali di cooperazione invece di ridurle a deficit civici. Queste prospettive convergono in una lettura storico-strutturale che vede il familismo come prodotto di processi istituzionali e non come causa naturale del sottosviluppo, indicando la ricostruzione del capitale sociale e l’inclusione come condizioni per superare il divario Nord-Sud.
Media e stereotipi: la costruzione dell'immaginario sul Sud
Se Cesare Lombroso e Edward Banfield rappresentarono i tentativi più noti di scientificare la stigmatizzazione del meridionale come un “altro” culturalmente e biologicamente distinto — il primo attraverso la criminologia positivista, il secondo con l’antropologia politica del “familismo amorale” — la costruzione di questo stereotipo ha avuto radici più profonde e pervasive. È stata infatti l’opera di intellettuali, giornalisti e mezzi di comunicazione di massa, soprattutto nell’Italia post-unitaria, a consolidare l’immagine del Sud come arretrato, improduttivo e moralmente inferiore.
Queste narrazioni si sono sviluppate attraverso vari mezzi — dalla letteratura al cinema, dalla televisione alla stampa — e hanno spesso affermato una dicotomia tra Nord razionale e Sud irrazionale, funzionale a rafforzare l’egemonia culturale settentrionale.
Secondo Maria Bonaria Urban (2011), già nel cinema muto degli anni Venti (es. Caina. L’isola e il continente, 1922), il Sud — e in particolare la Sardegna — veniva rappresentato come luogo selvaggio e fuori dal tempo, alimentando un immaginario di “esotismo interno” in aperta contraddizione con l’ideale unitario. La sua analisi mostra come la filmografia abbia proseguito lungo binari già tracciati dalla letteratura, contribuendo a una narrazione nazionale profondamente divisiva.
I primi film sul brigantaggio e sulla “questione meridionale” – come La Legge (1959) di Jules Dassin o Salvatore Giuliano (1962) di Francesco Rosi – mettono in scena un Sud primitivo, violento e regolato da codici arcaici, riproponendo visivamente l’immagine dell’“Italia nera” di Niceforo. Persino quando il tono era di denuncia sociale, come in In nome della legge (1949) di Pietro Germi, il contesto narrativo continuava a raffigurare il Meridione come spazio altro, dominato da faide, omertà e violenza endemica. In questo senso, il cinema ha svolto un ruolo ambivalente: da un lato ha portato alla luce conflitti reali, dall’altro ha cristallizzato i cliché di un Sud irrimediabilmente arretrato, traducendo in immagini popolari ciò che Niceforo aveva teorizzato in chiave “scientifica”.

Dagli anni Sessanta in avanti, questa rappresentazione si è evoluta ma non è mai scomparsa: dal realismo cupo di Salvatore Giuliano di Rosi e Banditi a Orgosolo di De Seta, passando per i ritratti parossistici di Lina Wertmüller, fino alle serie contemporanee come Gomorra o Mare Fuori, il meridionale è rimasto spesso legato a un immaginario di violenza, marginalità e criminalità. Ma dagli anni ’60 l’immaginario dell’“Italia nera” di Niceforo trova nuova vita soprattutto nella commedia all’italiana, che addomestica e rende digeribile il pregiudizio, trasformandolo in intrattenimento. La ragazza con la pistola (1968) di Mario Monicelli è esemplare: Monica Vitti interpreta una giovane siciliana che insegue l’uomo che l’ha disonorata, con l’intento di ucciderlo. Il codice dell’onore, che nei saggi di Niceforo era segno di arretratezza morale, diventa motore narrativo per una commedia irresistibile, ma al tempo stesso conferma l’immagine del Sud come prigione di norme arcaiche e violente. Sedotta e abbandonata (1964) di Pietro Germi mette in scena la Sicilia come prigione sociale, dove il codice dell’onore diventa un meccanismo implacabile che travolge le vite dei protagonisti: il riso che suscita è amaro, perché la logica del delitto d’onore è portata fino alle estreme conseguenze.

l mafioso (1962) di Alberto Lattuada racconta un uomo emigrato al Nord, quindi “modernizzato” che, tornando in Sicilia, si trova risucchiato da dinamiche mafiose ineluttabili: è una commedia nera che rafforza l’idea di una Sicilia eternamente dominata dal passato. Un altro tassello cruciale è Divorzio all’italiana (1961) di Pietro Germi, con Marcello Mastroianni. Qui l’aristocratico siciliano barone Cefalù, per liberarsi della moglie e sposare la cugina, orchestra un “delitto d’onore” per sfruttare la legge che prevede pene lievi per chi uccide il coniuge colto in adulterio. Il film è una satira spietata: la Sicilia è il laboratorio di un’Italia immobile, dove l’ipocrisia sociale e il patriarcato sono talmente interiorizzati da trasformare l’omicidio in un atto “giustificabile”.
Il pubblico ride, ma interiorizza l’idea che il meridionale sia regolato da passioni incontrollabili e rituali arcaici.

Negli anni successivi questo schema si rafforza: la commedia mostra il Sud come “altrove antropologico”, luogo di eccessi sessuali e ridicola virilità (Il merlo maschio, con Buzzanca), di ossessioni gelose e di codici d’onore assurdi (L’onorata società, con Franchi e Ingrassia).
A questa galleria si aggiungono le pellicole di Lina Wertmüller, che negli anni ’70 radicalizzano la rappresentazione del Sud come teatro di conflitti di classe, sesso e potere. Mimì metallurgico ferito nell’onore (1972) mostra un operaio siciliano costretto a emigrare al Nord: Mimì si iscrive al sindacato, sfida lo sfruttamento, ma resta intrappolato nei codici di gelosia e virilità che vorrebbe superare. Film d’amore e d’anarchia (1973) e Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto (1974) estremizzano ulteriormente la dialettica Nord/Sud. In Travolti da un insolito destino, la borghese milanese (Mariangela Melato) e il marinaio siciliano (Giancarlo Giannini) si ritrovano su un’isola deserta, dove i ruoli sociali si ribaltano e l’uomo “primitivo” assume il controllo, seducendo e dominando la donna “civilizzata”. La commedia diventa allegoria politica: il Sud è al tempo stesso luogo di regressione e di catarsi, di violenza ma anche di liberazione, in cui la modernità si sospende.
Un caso emblematico è anche Pasqualino Settebellezze (1975), forse il film più radicale di Lina Wertmüller e quello che le valse la candidatura all’Oscar come miglior regista. Pasqualino (interpretato da Giancarlo Giannini), è un guappo napoletano la cui intera vita è guidata dall’ossessione per l’onore familiare. Quando scopre che la sorella si prostituisce, la sua reazione è l’omicidio dell’uomo che l’ha avviata al meretricio. Questo atto “d’onore” lo trascina in una catena di conseguenze che lo portano al carcere, all’arruolamento forzato, alla diserzione e infine a un campo di concentramento nazista.
Paradossalmente, più l’Italia reale si modernizza e si urbanizza, più il cinema ha bisogno di un Sud arcaico per produrre comicità e identità nazionale: la macchietta del meridionale, ormai staccata dalla realtà sociologica, diventa un dispositivo narrativo autonomo, quasi un genere a sé.
In questo senso, la commedia degli anni ’60 e ’70 è il luogo in cui l’eredità di Niceforo viene interiorizzata e resa popolare: non più solo scienza o denuncia sociale, ma pedagogia collettiva travestita da risata. Il meridionale non è più soltanto il “problema” di cui parlano politici e criminologi, ma diventa un personaggio che il pubblico conosce, attende e riconosce. Così, ciò che nasce come discorso scientifico di inferiorizzazione diventa senso comune attraverso la cultura di massa.
Anche quando queste opere nascono come denuncia sociale – si pensi a Sedotta e abbandonata o a Gomorra – finiscono per fissare i cliché che intendono combattere, poiché il pubblico e i media li assorbono come conferme dell’“atavismo” meridionale più che come critica delle sue cause. Anche le fiction televisive mainstream, dai polizieschi ai melodrammi, hanno contribuito a fissare questa immagine, alternando il Sud pittoresco da cartolina al Sud cupo e malavitoso, con poche narrazioni che mostrino normalità o complessità sociale.
Uno studio di Francesca Brunetti (2024) approfondisce lo stereotipo della donna meridionale, raffigurata nei media come rumorosa, ignorante, impetuosa e aggressiva, sessualizzata, isterica e materna, analizzando la sua rappresentazione in romanzi, film, teatro, televisione e cultura popolare.

A differenza di Antonio Albanese, lombardo di origine siciliana, che con Qualunquemente estremizza in chiave grottesca il cliché del politico corrotto calabrese, e di Checco Zalone, che pure ha la geniale capacità di rovesciare in chiave comica e politicamente scorretta gli stereotipi sui “terroni”, Massimo Troisi è forse l’unico autore-attore ad aver rappresentato un Sud diverso: né cartolina folcloristica, né denuncia militante.
Nei suoi film (Ricomincio da tre, Scusate il ritardo, Pensavo fosse amore… invece era un calesse), il Sud è un luogo di relazioni intime e di piccoli conflitti esistenziali. I personaggi di Troisi sono vulnerabili, ironici, impacciati: non incarnano l’eccesso rumoroso del meridionale da commedia all’italiana, né il fatalismo disperato delle pellicole di denuncia. Sono individui complessi che vivono il Sud come sfondo naturale, non come gabbia antropologica.
In questo senso Troisi rappresenta un’alternativa narrativa alla colonizzazione dell’immaginario: il Sud che appare sullo schermo non è da correggere o da compatire, ma semplicemente da comprendere. La sua Napoli non è né Gomorra né presepe: è una città abitata da persone comuni, attraversata da umorismo e malinconia, che restituiscono dignità a un’umanità spesso schiacciata da cliché.
Marta Angélica Iossi Silva (2022), nella sua monografia Reimagining the Italian South, sottolinea un cambio di paradigma nelle rappresentazioni contemporanee. Il Sud non è più solo luogo di partenza e miseria, ma spazio di arrivo e di ibridazione culturale per migranti e artisti.
Il ruolo degli intellettuali e degli opinion makers
Accanto ai media, un ruolo determinante nella formazione e nella legittimazione degli stereotipi sul Sud è stato svolto da intellettuali, giornalisti e opinion makers, soprattutto tra fine Ottocento e metà Novecento. Queste figure, spesso provenienti dal Nord o da ambienti accademici centrali, hanno contribuito a consolidare una visione essenzialista del Mezzogiorno, presentato come indolente, improduttivo e refrattario al progresso.
Un esempio emblematico è quello di Luigi Einaudi, futuro Presidente della Repubblica, che nel primo dopoguerra scriveva di una necessaria "disciplina" del Sud per evitare sprechi di risorse.
Nel secondo dopoguerra, editorialisti come Indro Montanelli, Giorgio Bocca e Giampaolo Pansa hanno spesso alimentato visioni sprezzanti del Meridione, con un linguaggio che mescolava ironia e paternalismo. Bocca, in particolare, nei suoi reportage degli anni '70 e '80, descriveva il Sud come un luogo invischiato nella mafia, nel clientelismo e nella passività civile, riducendo spesso le complessità storiche a difetti antropologici.
Perfino lo sport ha contribuito alla costruzione di un immaginario dualistico: Gianni Brera, celebre giornalista sportivo, opponeva spesso il calcio “razionale” e “nordico” a quello “istintivo” e “primitivo” delle squadre del Sud, accentuando una dicotomia simbolica che andava ben oltre l’ambito calcistico. Questo ha rafforzato l’idea di una diversità ontologica tra le due Italie, con implicazioni che trascendevano lo sport.
Al tempo stesso, alcuni intellettuali meridionali come Gaetano Salvemini e Francesco Compagna hanno cercato di ribaltare queste narrazioni, proponendo analisi più strutturali e meno moralistiche del divario Nord-Sud. Tuttavia, la loro voce è stata spesso marginalizzata nel discorso pubblico mainstream.
Questa stratificazione di rappresentazioni ha reso difficile distinguere il dato culturale da quello ideologico, trasformando il Sud in una categoria semiotica utile a costruire, per contrasto, una presunta superiorità settentrionale o nazionale.
La migrazione di massa come catalizzatore del pregiudizio
La migrazione di massa dal Sud verso il Nord, tra anni Cinquanta e Settanta, rappresentò un punto di svolta nella storia del razzismo anti-meridionale. Milioni di proletari meridionali arrivarono a Torino, Milano e Genova per lavorare nelle fabbriche, portando il “Sud” dentro il cuore industriale del Paese. Questo incontro ravvicinato fece esplodere lo stereotipo: i giornali parlavano di “invasione meridionale”, i cartelli “non si affitta ai meridionali” divennero frequenti e il termine “terrone” si consolidò come insulto. Come documenta Capussotti (2010), la stampa rappresentava i migranti come portatori di degrado, malattie e criminalità, mentre in realtà essi erano forza propulsiva dello sviluppo economico. Questo processo consolidò una gerarchia interna: il Nord come luogo dell’ordine e del lavoro civile, il Sud come problema sociale da gestire. In questo modo, il razzismo anti-meridionale uscì dal laboratorio ideologico ottocentesco e si radicò nella vita quotidiana, sedimentandosi nell’immaginario collettivo.
La migrazione di massa dal Sud al Nord nel secondo dopoguerra fu in larga misura l’esito di scelte politiche ed economiche precise, non di un inevitabile destino storico. La ricostruzione e il miracolo economico furono trainati da una strategia di industrializzazione fortemente nordcentrica, che concentrò investimenti produttivi e infrastrutture nel triangolo Torino–Milano–Genova. Nel Mezzogiorno, le politiche della Cassa per il Mezzogiorno e le grandi iniziative industriali, come il polo siderurgico di Taranto o le raffinerie petrolchimiche, furono concepite e gestite da aziende parastatali e gruppi industriali con sede al Nord, generando spesso “cattedrali nel deserto” prive di indotto e di autonomia decisionale. Invece di riequilibrare il divario, queste scelte consolidarono una condizione di dipendenza strutturale: il Sud diventò bacino di manodopera a basso costo per le fabbriche settentrionali. L’emigrazione di massa, lungi dall’essere una fuga spontanea, fu quindi la conseguenza di un modello di sviluppo che ha svuotato il Mezzogiorno delle sue risorse umane per alimentare la crescita del Nord, perpetuando il ciclo di spopolamento e marginalizzazione.

Nel cinema, il tema dell’emigrazione interna, è stato affrontato da Luchino Visconti in Rocco e i suoi fratelli (1960), che racconta lo sradicamento di una famiglia lucana a Milano, trasformando il capoluogo lombardo in teatro di ascesa sociale ma anche di alienazione, degrado e tragedia. Ancora prima, Pietro Germi aveva firmato Il cammino della speranza (1950), epopea dei minatori siciliani in marcia verso il Nord, mentre Carlo Lizzani con La vita agra (1964) aveva messo in scena la rabbia impotente di chi arriva a Milano con il sogno di una rivoluzione operaia e si scontra con l’alienazione industriale. Negli anni Settanta, il tema diventa quasi un sottogenere: nel 1972, il già citato Mimì metallurgico ferito nell’onore, porta sullo schermo l’emigrato progressista ma in realtà vittima dei suoi stessi codici di onore e gelosia. Romanzo popolare (1974) di Monicelli mette in scena il conflitto culturale Nord-Sud dentro la coppia mista (l’operaio lombardo e la moglie calabrese), mentre Pane e cioccolata (1974) di Franco Brusati, pur ambientato in Svizzera, universalizza l’esperienza dell’emigrante, raccontando con toni agrodolci discriminazione, vergogna e desiderio di assimilazione.
Questi film – più drammatici che comici – fissano nell’immaginario l’archetipo del meridionale emigrato: corpo estraneo da integrare, figura tragica e insieme problematica, portatore di conflitto sociale e culturale, sempre in bilico tra riscatto e sconfitta.
Bibliografia ragionata – Parte I
Teorie: orientalismo interno, colonialismo interno, stereotipi
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Criminologia positivista, “Italia nera” e razzializzazione interna
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“Familismo amorale”, capitale sociale e loro riletture
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Media, TV e costruzione dell’immaginario
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Film citati (selezione, con anno e regia)
Pane, amore e fantasia (1953, L. Comencini)
Il cammino della speranza (1950, P. Germi)
La terra trema (1948, L. Visconti)
In nome della legge (1949, P. Germi)
Totò, Peppino e la… malafemmina (1956, C. Mastrocinque)
Il mafioso (1962, A. Lattuada)
Divorzio all’italiana (1961, P. Germi)
Salvatore Giuliano (1962, F. Rosi)
Banditi a Orgosolo (1961, V. De Seta)
Rocco e i suoi fratelli (1960, L. Visconti)
La vita agra (1964, C. Lizzani)
La ragazza con la pistola (1968, M. Monicelli)
Il merlo maschio (1971, P. Cavara)
Mimì metallurgico ferito nell’onore (1972, L. Wertmüller)
Film d’amore e d’anarchia (1973, L. Wertmüller)
Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto (1974, L. Wertmüller)
Pasqualino Settebellezze (1975, L. Wertmüller)
Romanzo popolare (1974, M. Monicelli)
Pane e cioccolata (1974, F. Brusati)
(per il blocco “brigantaggio/Risorgimento” si veda anche Vancini, Bronte, 1972, già in Parte III)
Figure autoriali richiamate
Totò; Peppino De Filippo (“Pappagone”, RAI, 1966–67).
Massimo Troisi (1981–1991): Ricomincio da tre; Scusate il ritardo; Pensavo fosse amore… invece era un calesse.
Albanese, A. (2011). Qualunquemente (sul grottesco politico “meridionale”).
Serialità recente per confronto: Gomorra – La serie (2014–), Mare Fuori (2020–).
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