Cartografia della discriminazione. 2. Il meridionale come dispositivo narrativo
- Luigi Corvaglia
- 21 lug 2024
- Tempo di lettura: 23 min
Aggiornamento: 14 set

Colonialismo interno e asimmetria dell'immaginario
Luigi Corvaglia
Seconda parte
Prologo
Durante un viaggio in treno conobbi un immigrato africano che mi disse una cosa illuminante: lui, l’Africa della fame, delle capanne di paglia e dei cacciatori nella savana, l’aveva conosciuta in Italia – attraverso la televisione. Non l’aveva mai vista nel suo Paese d’origine. “Non che non esista”, mi disse, “ma non è tutta l’Africa”. È solo una parte, scelta e ripetuta fino a diventare l’immagine dominante.
Qualcosa di simile accade per il Sud d'Italia: io e molti miei conterranei non abbiamo mai visto il degrado sociale e culturale che la televisione e i giornali associano quotidianamente al Mezzogiorno. Questo non significa che non esista – i dati e le statistiche lo confermano – ma che non è l’unica realtà. Il lavoro dei mass media sembra allora un esercizio di cherry picking: selezionare i frammenti più funzionali a confermare una dicotomia già stabilita, quella di un Sud deviante e di un Nord “normale”. Così l’eccezione diventa regola, l’aneddoto diventa paradigma, e l’immaginario nazionale si rafforza nella sua asimmetria.
Il modo più potente per farlo è raccontare gli episodi di cronaca attraverso una lente dicotomica: lo stesso fatto di sangue, se accade a Palermo o a Napoli, diventa prova di un’arretratezza culturale collettiva, mentre se avviene a Milano o a Treviso viene letto come deviazione individuale o “follia isolata”. Così l’eccezione al Nord è “mostro” da neutralizzare, al Sud è “cultura” da stigmatizzare. L’effetto finale è quello di naturalizzare la frattura: il crimine diventa marchio identitario del Sud e incidente di percorso al Nord.
Questo meccanismo di selezione e di inquadramento produce un effetto più sottile della semplice stigmatizzazione: trasforma il meridionale in un dispositivo narrativo. Ogni episodio, ogni notizia, ogni film sembra servire a ribadire un carattere collettivo: passionale, incontrollato, dominato da emozioni e codici d’onore. È qui che l’immaginario diventa pedagogia nazionale, insegnando al pubblico non solo cosa è accaduto, ma come leggere il carattere di un intero popolo.
Il meridionale come dispositivo narrativo: a) l'emotività

Lo stereotipo del meridionale, diffuso ubiquitariamente e filtrato in profondità nella psiche collettiva italiana, si è radicato al punto da generare una gerarchia implicita che prescinde da meriti individuali o culturali. È tale la forza di questa narrazione che, nella sua versione più tossica, consente anche al più rozzo e ignorante dei contadini veneti o piemontesi di percepirsi superiore a un intellettuale meridionale.
Uno stereotipo largamente diffuso e difficilmente scardinabile è quello che descrive il Sud Italia come terra di emotività eccessiva, gelosia morbosa e relazioni disfunzionali, in contrasto con un presunto autocontrollo e razionalismo del Nord.

Questa esuberanza è stata amplificata e resa visibile dal cinema, che ha trasformato la teatralità meridionale in uno dei suoi tratti distintivi. In Totò, Peppino e la… malafemmina (1956) le suppliche patetiche dei due fratelli, i gesti esagerati diventano il cuore della comicità, in netto contrasto con la compostezza dei milanesi che li circondano. Sedotta e abbandonata (1964) di Pietro Germi porta all’estremo la scenata d’onore, trasformandola in macchina grottesca che travolge intere famiglie tra pianti, urla e minacce di duello. In La ragazza con la pistola (1968), Monica Vitti esporta la sua furia vendicativa dalla Sicilia all’Inghilterra, dove il suo pathos appare esotico e fuori luogo. Nel cinema drammatico questa espressività diventa cifra di tragedia collettiva: Nuovomondo (2006) di Crialese mostra i migranti siciliani urlare, cantare e piangere mentre affrontano la burocrazia asettica di Ellis Island, mentre Anime nere (2014) rappresenta la faida calabrese come una spirale di dolore rituale e urla di vendetta. Anche la serialità recente – basti pensare a Mare fuori – insiste sulla coralità del lutto, sui corpi che si abbracciano, sulle urla collettive. Queste immagini hanno insegnato a generazioni di spettatori a identificare il Sud con l’eccesso emotivo, fissando nella memoria collettiva un contrasto simbolico: il Nord silenzioso e “civile” da un lato, il Sud rumoroso, passionale e incontrollato dall’altro.
Questa differenza di stile emotivo è spesso letta in modo distorto nei media e nei luoghi comuni, che trascurano come anche al Nord esistano emozioni, possessività e violenza relazionale, solo meno tematizzate pubblicamente. La persistenza di questo mito contribuisce a rinforzare una visione caricaturale del Sud, utile a sostenerne la marginalizzazione simbolica.
Uno studio di Francesca Brunetti (2024) analizza in profondità lo stereotipo della donna meridionale, rappresentata dai media come rumorosa, impulsiva, aggressiva, sessualizzata, talvolta isterica e sempre legata alla dimensione materna. L’autrice esplora la sua raffigurazione in romanzi, cinema, teatro, televisione e cultura popolare, mostrando come questa immagine, pur affascinante per il pubblico, finisca per ridurre la donna del Sud a una figura domestica e istintiva, priva di reale agency sociale. Brunetti parte dai grandi classici del cinema italiano – Ieri, oggi, domani, Matrimonio all’italiana, Sedotta e abbandonata, La ragazza con la pistola – e dalle opere di Eduardo De Filippo, evidenziando come questi testi abbiano contribuito a cristallizzare un modello che oscilla tra l’icona erotica e la maschera comica.
Brunetti propone di rovesciare lo stereotipo della donna meridionale, trasformandola da caricatura folkloristica in un personaggio consapevole e autonomo. In questa rilettura, la donna del Sud non è più solo la moglie gelosa o la madre urlante delle commedie, ma una figura forte, capace di usare la propria passionalità e vitalità come risorsa. È simbolicamente legata alla terra e al mare del Mediterraneo, che rappresentano resistenza e capacità di rinascere. Questa trasformazione si vede anche nella cultura pop contemporanea: personaggi come Imma Tataranni, sostituto procuratore determinato e brillante, o la commissaria Lolita Lobosco, che unisce competenza e sensualità, mostrano donne del Sud che non subiscono più il proprio destino ma ne diventano protagoniste. Così, da oggetto di sguardo – su cui il pubblico rideva o fantasticava – la donna meridionale diventa agente di cambiamento, in grado di mettere in discussione i ruoli e le gerarchie culturali che l’hanno tenuta ai margini per oltre un secolo.
Se la commedia all’italiana ha fissato il meridionale come personaggio chiassoso, geloso, iperbolico, Massimo Troisi ha fatto l’operazione opposta. Nei suoi film (Ricomincio da tre, Scusate il ritardo, Pensavo fosse amore… invece era un calesse) il Sud non è un palcoscenico di eccessi, ma uno spazio quotidiano, fatto di esitazioni, silenzi, ironia leggera.
Troisi non denuncia né esotizza il Sud, lo abita. E nel farlo, restituisce dignità a una quotidianità spesso ridicolizzata.
In questo senso, il cinema di Troisi è un atto politico: una forma di resistenza simbolica contro la colonizzazione dell’immaginario. Mostrando che il Sud può essere lieve, ironico e universale, Troisi ha contribuito a emancipare l’immagine meridionale dal binomio “folklore o tragedia”.
a.1 Gelosia e delitto d'onore
Un passaggio decisivo nella rappresentazione cinematografica della gelosia meridionale è La moglie più bella (Damiano Damiani, 1970). Ispirato alla vicenda di Franca Viola, il film mostra come la gelosia e l’onore maschile non siano solo pulsioni individuali, ma dispositivi sociali di controllo. La protagonista (Ornella Muti) rifiuta il matrimonio riparatore con il suo rapitore e sfida l’intera comunità, trasformando un fatto privato in atto politico. Damiani adotta un realismo asciutto che smonta ogni elemento folklorico e restituisce il dramma in tutta la sua violenza simbolica: la gelosia non è più macchietta né farsa, ma strumento di potere collettivo, e il suo rifiuto diventa gesto di emancipazione.
Un aspetto cruciale – e spesso trascurato – è che il delitto d’onore non era affatto una “specialità” meridionale, ma un istituto giuridico nazionale, previsto dall’articolo 587 del Codice Rocco fino al 1981. Chi uccideva la moglie, la sorella o la figlia “nell’atto in cui ne scopriva la illegittima relazione carnale” godeva di una pena attenuata in tutta Italia. La cronaca giudiziaria del Novecento documenta numerosi casi anche in Veneto, Lombardia, Piemonte ed Emilia: drammi familiari in cui il movente era la difesa dell’onore e che si concludevano con matrimoni riparatori o pene miti. La differenza non stava nella frequenza, ma nel racconto: al Nord l’omicidio era presentato come “raptus”, tragedia individuale, mentre al Sud diventava “prova” di arretratezza collettiva, quasi un fenomeno antropologico. La “meridionalizzazione” del delitto d’onore è quindi una costruzione narrativa, che ha trasformato un problema nazionale in un marchio identitario del Mezzogiorno.
Ad ogni modo, studi comparativi come quello di Galati e Sciaky (1995) dimostrano che le differenze tra settentrionali e meridionali non riguardano l’intensità delle emozioni, ma il loro oggetto e la loro rappresentazione culturale.
I due ricercatori hanno chiesto a studenti universitari del Nord (Torino) e del Sud (Cosenza) di raccontare episodi in cui avevano provato emozioni intense. I risultati mostrano che l’intensità delle emozioni è simile in entrambe le aree geografiche: ciò che cambia è il contesto narrativo. Gli studenti meridionali collocano le loro emozioni più spesso in scenari collettivi — famiglia, comunità, relazioni affettive — mentre i settentrionali le legano più a episodi individuali, come successi o insuccessi personali. In altre parole, non esiste un “eccesso emotivo” meridionale, ma una diversa messa in scena dell’emozione, più relazionale e pubblica. Lo stereotipo del Sud “passionale e incontrollato” è dunque il frutto di una lettura gerarchica di queste differenze culturali, che interpreta come arretratezza ciò che è, in realtà, una diversa grammatica delle emozioni.
Un esempio paradigmatico di questa asimmetria si trova nella rappresentazione mediatica del lutto. Nei servizi giornalistici dedicati a tragedie o funerali, i familiari delle vittime settentrionali vengono spesso mostrati composti, silenziosi, “dignitosi”, in linea con l’ideale di autocontrollo razionale. Al contrario, quando l’evento riguarda il Sud, le telecamere insistono su immagini di pianto inconsolabile, gesti teatrali, abbracci collettivi, quasi a rimarcare una presunta “eccessività emotiva” meridionale. Viste da Sud, cioè cambiando lo sguardo, direbbe Cassano, sono proprio queste espressioni emotive "nordiche" a lasciare perplessi i meridionali, quasi come se fossero poco toccati dalla perdita, ma è questo uno sguardo perdente. Alla luce di Cassano, le differenze di stili emotivi vanno sottratte alla gerarchizzazione: non esistono emozioni “civili” del Nord e “barbare” del Sud, esistono regole di espressione e valutazioni pubbliche che una cultura dominante trasforma in scala di valore.
Il meridionale come dispositivo narrativo: b) Superstizione e magia
Un ulteriore aspetto dello stereotipo antimeridionale riguarda la presunta maggiore propensione del Sud alla superstizione, al fatalismo e al ricorso a pratiche magico-religiose. Queste credenze vengono spesso usate per alimentare una narrazione di arretratezza culturale meridionale, contrapposta all’immagine di un Nord razionale e moderno.
Il cinema ha avuto un ruolo centrale nel fissare l’immagine del Sud come luogo di superstizione e magia. In Cristo si è fermato a Eboli (1979) di Francesco Rosi, tratto dal libro di Carlo Levi, vediamo un Sud arcaico e isolato, quello dei villaggi lucani degli anni ’30, lontano dalle grandi città, dove la rassegnazione e i riti magico-religiosi sono parte integrante della vita quotidiana. Analogamente, Kaos (1984) dei fratelli Taviani porta sullo schermo le novelle di Luigi Pirandello, che raccontano una Sicilia contadina di fine Ottocento, intrisa di fantasmi, maledizioni e credenze collettive: un mondo “altro”, arcaico, quasi fuori dal tempo. Il demonio (1963) di Brunello Rondi, ispirato agli studi di Ernesto de Martino, mostra il tarantismo e l’esorcismo come dispositivi di guarigione comunitaria, ma immersi in un’atmosfera cupa che sfiora l’horror. Sul versante comico, il cinema ha amplificato il lato pittoresco e superstizioso del Sud: Totò, Peppino e le fanatiche (1958) ironizza sulla credulità popolare, mentre Occhio, malocchio, prezzemolo e finocchio (1983) di Sergio Martino, con Lino Banfi, trasforma la superstizione in farsa, tra corna portafortuna, maghi truffaldini e malocchi lanciati al vicino di casa. Anche il cinema più recente e più benevolo nei confronti del Sud, come Benvenuti al Sud (2010), riprende questi cliché: il personaggio interpretato da Claudio Bisio scopre un paese dove tutti sputano per scaramanzia e osservano rituali propiziatori, confermando che la superstizione resta uno dei segni identitari più facili da associare al Mezzogiorno.
Queste narrazioni, pur diverse per tono e genere, partecipano a quella che Jane Schneider chiama “orientalismo interno”: il Sud viene rappresentato come un altrove esotico, rurale e immobile, contrapposto a un Nord moderno e razionale. È la cristallizzazione di un’immagine folklorica che rischia di ridurre il Sud a un museo dell’irrazionale, più da osservare che da comprendere.

Un esempio invece magistrale di decostruzione in chiave critica e ironica della superstizione è l’episodio “La patente” del film Questa è la vita (1954), tratto da una novella di Luigi Pirandello, in cui Totò interpreta Rosario Chiarchiaro, un uomo emarginato perché considerato jettatore. Stanco di essere evitato da tutti, Chiarchiaro chiede ufficialmente al tribunale la “patente” di jettatore, per poter sfruttare a proprio vantaggio la paura che gli altri provano nei suoi confronti.
Totò, con il suo talento comico, trasforma il dramma in satira sociale: la superstizione collettiva viene esposta in tutta la sua assurdità, e il presunto portatore di sventura si ribella, rovesciando lo stigma in potere. In questo modo il film mostra come l’etichetta di “superstizioso” o “maligno” non sia solo un tratto culturale, ma anche un meccanismo di esclusione e controllo sociale.
b.1 Napoli e San Gennaro
Un’altra opera che gioca con il confine fra sacro e profano, tra fede popolare e furbizia, è Operazione San Gennaro (Dino Risi, 1966). Qui il tesoro del santo patrono di Napoli diventa l’oggetto di un colpo internazionale: tre ladri americani arrivano in città per rubarlo, ma per riuscirci devono allearsi con la malavita locale e fare i conti con la devozione collettiva dei napoletani, preoccupati di indispettire il santo. La religiosità popolare, più vicina alla magia che alla religione istituzionale, appare come un linguaggio comune che regola rapporti di forza, stabilisce chi è dentro e chi è fuori, cosa è lecito e cosa no. Risi utilizza il tono leggero della commedia per mostrare come il confine fra religione, superstizione e teatralità sia costantemente attraversato, e come il miracolo – vero o presunto – diventi un modo per riappropriarsi del proprio destino.
Un confronto interessante si può fare con Il miracolo di San Gennaro (Nanni Loy, 1965), uscito solo un anno prima del film di Risi. In questo caso il tono è più grottesco e caustico: la liquefazione del sangue non avviene, e l’intera città entra in crisi. La mancata grazia provoca panico, processioni improvvisate, esorcismi, interventi del clero e dei politici locali, tutti ansiosi di ristabilire l’ordine.
Se Operazione San Gennaro mostra la religiosità popolare come complice di un ordine comunitario (pur nella sua ambiguità), Loy ne mette a nudo il lato ansiogeno e irrazionale: il miracolo mancato diventa una minaccia esistenziale, capace di paralizzare la città. Qui la fede è rappresentata meno come devozione e più come magia: un patto con il divino che, se non rispettato, può generare catastrofe.
I due film, visti insieme, restituiscono la complessità del rapporto fra Napoli e il suo santo patrono: da un lato il culto come festa, gioco, occasione di riscatto collettivo; dall’altro il culto come rituale necessario per tenere a bada la paura del caos. In entrambi i casi, la religiosità popolare è meno cristianesimo teologico e più teatro civile, una drammaturgia che unisce superstizione, ironia e bisogno di comunità.
b.2 Pensiero magico esclusiva meridionale?
Relativamente a forme antiche di magia popolare che sopravvivano nel XX secolo, Ernesto de Martino, nel celebre Sud e Magia (1959), rovesciò la lettura stigmatizzante delle pratiche magico-religiose: non segni di arretratezza, ma strategie di sopravvivenza simbolica, tentativi razionali di ricostruire il senso in contesti di povertà estrema.
Tuttavia, riguardo alla contemporaneità, studi psicologici e sociologici recenti smentiscono questa dicotomia.
La ricerca di Sica et al. (2002), condotta su studenti universitari del Nord Italia (Parma e Padova), mostra che livelli elevati di superstizione e pensiero magico si riscontrano anche in contesti culturalmente “laicizzati” e accademici. I risultati evidenziano che la superstizione è una costante antropologica, non confinata geograficamente né legata esclusivamente a condizioni di arretratezza.
Un’ulteriore conferma viene dallo studio di Breschi e Ruiu (2016) sui comportamenti matrimoniali in Italia: la tendenza a evitare il 17 o il mese di maggio per sposarsi, interpretata come forma di superstizione, è presente in tutte le regioni italiane, inclusi i contesti urbani e settentrionali. La superstizione, quindi, non è un tratto meridionale, ma un fenomeno nazionale, declinato in forme diverse a seconda dei contesti.
Inoltre, studi antropologici segnalano come il ricorso a pratiche magico-religiose (come benedizioni, riti apotropaici, “fatture”) sia ancora presente, anche se con modalità simboliche differenti, sia al Nord che al Sud, specie nelle aree rurali o in contesti di forte stress sociale. La visibilità mediatica delle pratiche meridionali ha contribuito a marcare culturalmente il Sud come più “credulone”, oscurando pratiche analoghe nel resto del Paese.
Questi dati smentiscono la rappresentazione di un Mezzogiorno irrazionale per natura, e mettono in luce come l’uso strumentale della superstizione serva a consolidare l’immaginario di inferiorità meridionale.
Il meridionale come dispositivo narrativo: c) Il ruolo della criminalità organizzata nello sviluppo del Sud e nello stereotipo

La criminalità organizzata ha avuto un impatto profondamente ambivalente sul Mezzogiorno: da un lato ha condizionato lo sviluppo economico e la qualità della vita, dall’altro ha contribuito a consolidare lo stereotipo nazionale e internazionale di un Sud irrimediabilmente legato all’illegalità.
Studi recenti (Del Monte & Pennacchio, 2012; Ciaccio, 2010) mostrano che la criminalità organizzata non è nata nei territori più poveri, ma in quelli più produttivi e urbanizzati, dove lo Stato era assente e dove esisteva un surplus economico da controllare. A differenza del brigantaggio, diffuso nelle aree depresse e marginali, mafia, camorra e 'ndrangheta si sono radicate dove potevano offrire servizi di protezione, controllo del territorio e intermediazione parassitaria tra economia legale e potere pubblico.

l loro impatto è stato devastante per lo sviluppo locale: inibizione degli investimenti, alterazione della concorrenza, aumento del costo dei servizi pubblici, clientelismo diffuso. La presenza di organizzazioni mafiose ha spesso impedito lo sviluppo di un'imprenditoria autonoma e innovativa, sostituita da imprese colluse o da operatori spaventati dal rischio.
Parallelamente, la criminalità organizzata ha alimentato una narrazione pubblica stigmatizzante del Sud: nei media e nel discorso politico, il Mezzogiorno è stato frequentemente ridotto a “terra di mafia”, oscurando la pluralità delle sue realtà sociali ed economiche. Tale immaginario ha contribuito a legittimare pratiche discriminatorie, disinvestimenti e una rappresentazione coloniale della "questione meridionale" come problema morale, più che politico o economico.
Questa doppia dinamica – impedimento strutturale allo sviluppo e costruzione ideologica del Sud deviante – ha rafforzato l’asimmetria nazionale. Per questo motivo, una lettura complessa della questione meridionale non può ignorare il ruolo attivo che la criminalità organizzata ha svolto nella storia e nella percezione del Mezzogiorno.
Il cinema ha avuto un ruolo decisivo nel consolidare l’immagine della Sicilia – e, in seguito, della Calabria – come terre dominate da codici d’onore arcaici e da un senso di morte onnipresente. Film come Il giorno della civetta (1968) di Damiano Damiani e Salvatore Giuliano (1962) di Francesco Rosi hanno mostrato la Sicilia come un teatro tragico, sospeso tra mafia, politica e fatalismo collettivo. La violenza non è solo un fatto di cronaca, ma un destino che incombe sui personaggi, inscrivendo le loro vite in un ciclo di omertà, vendetta e sacrificio. Negli anni Duemila, film come Anime nere (2014) di Francesco Munzi spostano questo immaginario sulla Calabria: qui la faida familiare è mostrata come un legame di sangue che soffoca ogni possibilità di emancipazione.

La serialità televisiva ha amplificato questo sguardo: La Piovra negli anni ’80, Gomorra – La serie (2014–2021) e Il Cacciatore (2018–2021) hanno portato milioni di spettatori nel cuore del sistema criminale, ma spesso a costo di ridurre il Sud a scenario perenne di illegalità e degrado. Gomorra, in particolare, pur essendo un capolavoro di regia e scrittura, ha avuto un impatto enorme sull’immaginario globale: per molti italiani Napoli, e per gli stranieri, l'Italia, coincide ormai con i vicoli dei clan Savastano e con un’estetica della violenza che oscura altri aspetti della città.
Queste narrazioni, pur spesso animate da intenti di denuncia, hanno contribuito a fissare nella coscienza collettiva l’idea che Sicilia, Calabria e Campania siano luoghi “fuori dal tempo”, governati da leggi non scritte e da un codice d’onore inesorabile, trasformando la violenza in cifra identitaria del Meridione.
È paradossale notare che proprio Leonardo Sciascia, l’autore dei romanzi da cui nascono Il giorno della civetta e A ciascuno il suo, sia stato anche colui che teorizzò l'avanzare della “linea della palma”, la metafora con cui descrisse l’espansione della mafia verso Nord. Per Sciascia, la mafia non era un fatto “etnico” o locale, ma un fenomeno capace di adattarsi e di crescere dove trovava condizioni favorevoli. In questo senso, il suo pensiero rompeva la lettura culturalista che identificava la Sicilia come il luogo naturale della mafia, e anticipava la sociologia contemporanea che studia il radicamento delle mafie nel Nord Italia come esito di alleanze e opportunità, non di tratti antropologici.
c.1 Criminalità organizzata: La cornice asimmetrica ed il doppio standard
La penetrazione delle mafie nel Nord Italia è oggi ampiamente documentata da ricerche sociologiche e rapporti istituzionali, che ne mostrano la natura sistemica e non episodica. Dalla Chiesa e Cabras (2022) hanno evidenziato come la ‘ndrangheta abbia radicato presenze stabili in Lombardia, Piemonte e Veneto, con almeno 48 “locali” operativi censiti dalla DIA e un’ampia rete di imprese di copertura inserite nel mercato legale. Gli studi dell’Osservatorio CROSS dell’Università di Milano (2022) e le analisi di Sciarrone (2011, 2014) hanno mostrato che il successo delle organizzazioni mafiose nel Nord dipende anche dalla disponibilità di segmenti dell’imprenditoria locale e della politica a stringere accordi di mutuo beneficio: dalle forniture per i cantieri dell’alta velocità, agli appalti comunali, fino al riciclaggio attraverso l’edilizia e la ristorazione. Questa collusione – spiegano Sciarrone e Storti (2019) – non è frutto di un’imposizione unilaterale, ma di una “domanda” di servizi criminali che proviene dal mondo economico, interessato a ridurre i costi, ottenere protezione o espandere i propri affari. Il fatto che il modello mafioso si sia potuto radicare e prosperare in aree lontane dal Mezzogiorno dimostra che il fenomeno non è una manifestazione “antropologica” della psiche meridionale, come spesso suggerito da letture culturaliste, ma un sistema di potere flessibile e adattivo che trova terreno fertile ovunque vi siano opportunità di profitto, connivenza politica e carenze di controllo istituzionale.

Emblematico dell’asimmetria dell’immaginario nazionale è il diverso trattamento riservato a tre regioni che, storicamente, erano prive di una criminalità organizzata autoctona, due del nord: Veneto e Piemonte, e una del Sud, la Puglia. La storia della Mala del Brenta dimostra che la criminalità organizzata non è un'esclusiva del Sud Italia, né può essere spiegata attraverso categorie culturali o antropologiche. Nata e radicata nel Veneto tra gli anni ’70 e ’90, sotto la guida di Felice Maniero, questa organizzazione ha operato con metodi tipicamente mafiosi — estorsioni, traffico di droga, controllo del territorio — ed è stata ufficialmente riconosciuta come organizzazione mafiosa da un tribunale italiano. Eppure, nel discorso pubblico e nei media, continua a essere definita “Mala del Brenta”, con un linguaggio che ne attenua la portata, come se fosse un’anomalia marginale, un accidente nella storia criminale del Nord. Al contrario, la Sacra Corona Unita, nata ben dieci anni dopo in Puglia, è sistematicamente etichettata come mafia, interpretata come prova di un’atavica tendenza del Sud alla criminalità organizzata. E questo accade nonostante entrambe le organizzazioni siano oggi fortemente ridimensionate, se non residuali. Tale asimmetria narrativa rafforza uno stereotipo: la mafia al Nord è un'eccezione, quella al Sud una natura. Ma la realtà storica dimostra che la criminalità organizzata è un fenomeno nazionale, che si radica ovunque trovi contesti favorevoli — e non certo un destino geografico o culturale. Un altro caso emblematico è quello del Piemonte, che rappresenta un caso emblematico di criminalità organizzata al Nord, con una presenza capillare della ’ndrangheta fin dagli anni Sessanta. Da allora, l’organizzazione si è infiltrata nei settori dell’edilizia, degli appalti pubblici e dell’imprenditoria, fino a stabilire una rete stabile di potere, spesso in sinergia con esponenti della politica locale. Lo dimostrano processi come Minotauro e Echidna, quest’ultimo ancora in corso, che vedono coinvolti imprenditori e politici accusati di collusione con la mafia calabrese per pilotare appalti in diversi comuni. Tuttavia, nel discorso pubblico il Piemonte viene descritto come una “terra aggredita” dalla mafia, vittima di un’infiltrazione esterna che ne corrompe il tessuto sociale ed economico (si pensi ai casi Bardonecchia e alle inchieste successive sulle locali di ‘ndrangheta in Val di Susa e nel Canavese). Nel suo volume Mafie del Nord , Sciarrone afferma che “le mafie non sono soltanto il prodotto di contesti arretrati e tradizionali, ma attori capaci di inserirsi nelle pieghe della modernità e di stabilire relazioni con l’economia legale” (Sciarrone, 2014, p. 21). Da questa prospettiva, la radicazione della ‘ndrangheta in Piemonte non può essere letta come una mera colonizzazione, ma come il risultato di alleanze e convenienze reciproche che hanno favorito l’ibridazione tra reti criminali e sistema produttivo locale. Come ricorda l'autore, la nascita della Sacra Corona Unita in Puglia negli anni Ottanta “avviene ad opera di Giuseppe Rogoli, che in carcere entra in contatto con affiliati della ‘ndrangheta e ne importa il modello organizzativo, adattandolo al contesto pugliese” (Sciarrone, 2014, p. 56). Questo processo è reso possibile da una serie di opportunità locali: il vuoto lasciato dalle vecchie reti del contrabbando e l’assenza di un’azione di contrasto efficace negli anni iniziali. La Puglia, dunque, non “nasce mafiosa”, ma sviluppa una forma di criminalità organizzata per imitazione e per opportunismo, in un processo analogo a quello osservato nel Nord con l’insediamento delle locali di ‘ndrangheta.
Secondo lo studio di Maria Antonella Pasculli (2011), la SCU si è sviluppata in modo frammentato e con un forte radicamento locale in alcune aree, ma non ha mai raggiunto il livello di penetrazione sociale e politica delle mafie storiche. Ciononostante, molti cittadini del nord indicano la Puglia come terra di Mafia, ma non il Piemonte, come se i politici e gli imprenditori locali che cercano gli ndranghgetisti per governare appalti, orientare le scelte amministrative e intimidire i concorrenti non fossero parte del sistema mafioso.
Questa divergenza narrativa evidenzia come l’immaginario mediatico e politico tenda a confermare stereotipi di lungo periodo: il Nord come spazio naturalmente sano da difendere e il Sud come luogo congenitamente deviante. Eppure la dinamica di nascita delle organizzazioni criminali in queste regioni mostra tratti comuni: l’importazione di modelli mafiosi dalle regioni del Mezzogiorno a mafia storica (Sicilia, Campania e Calabria) e la loro ibridazione con il tessuto socioeconomico locale, favorito da segmenti di imprenditoria e politica collusa.
La contronarrazione emergente
Negli ultimi anni, però, stanno emergendo contro-narrazioni che mirano a raccontare un Sud diverso: non solo vittima o carnefice, ma anche laboratorio di innovazione, legalità e rinascita. Documentari come La nostra terra (2014) di Giulio Manfredonia, che racconta le cooperative sui beni confiscati, e film come Ariaferma (2021) di Leonardo Di Costanzo, che esplora il Sud come spazio di sperimentazione etica e umana, propongono una visione più complessa e meno stereotipata.
Un ruolo importante lo ha avuto la commedia. Un buon esempio, La mafia uccide solo d’estate (2013) di Pif, che mescola commedia e memoria civile, riuscendo a parlare di Cosa Nostra attraverso lo sguardo disincantato e ironico di un bambino. Il film e la successiva serie TV hanno avvicinato un pubblico vasto al tema della lotta alla mafia, spostando l’attenzione dalla fascinazione per i boss alla quotidianità delle vittime e alla possibilità di un impegno collettivo. Un altro esempio di contro-narrazione dal tono leggero è la serie Incastrati (2022–2023) di Ficarra e Picone, che porta la mafia nella commedia degli equivoci. La serie parte da un omicidio di mafia, ma non racconta i clan in modo epico: li ridicolizza, li rende goffi, spesso vittime delle proprie dinamiche paradossali. In questo modo Ficarra e Picone riescono a sottrarre alla mafia quell’aura di onnipotenza che tanta fiction le ha conferito, restituendo al pubblico la possibilità di riderne — un atto liberatorio e politicamente significativo.
Anche il cinema indipendente napoletano (Il buco in testa, Gatta Cenerentola) cerca di restituire pluralità all’immaginario, mostrando che il Sud non è solo teatro di criminalità, ma anche luogo di resistenza civile e di cultura viva.
Folklore e rapporti di forza: il caso della pizzica

Già Antonio Gramsci, nei Quaderni del carcere, aveva indicato che il folklore non è un residuo arcaico, ma una concezione del mondo delle classi subalterne, un vero e proprio campo di battaglia ideologico in cui il senso comune resiste all’egemonia culturale dominante.
Ernesto de Martino, approfondendo questa prospettiva, ha interpretato i riti popolari come strategie di sopravvivenza simbolica. Nel suo La terra del rimorso (1961) analizzò il caso emblematico della pizzica salentina, legata al rito del tarantismo: un dispositivo collettivo di guarigione che permetteva alla tarantata di reintegrarsi nella comunità, trasformando la crisi individuale in un evento rituale condiviso.
Per Alberto Mario Cirese, il folklore non è un reperto da museo, ma un prodotto attuale dei rapporti di potere: le classi subalterne elaborano simboli e pratiche per dare significato alla propria condizione, ma queste vengono spesso espropriate dalle classi dominanti e trasformate in “colore locale” o in intrattenimento turistico. La parabola contemporanea della pizzica – da rito di guarigione a spettacolo di massa, fino alla “Notte della Taranta” – è un esempio perfetto di quella che Cirese chiamava neutralizzazione del folklore: una cultura nata come risposta a una condizione di oppressione viene resa innocua, estetizzata e commercializzata, confermando l’immagine di un Sud pittoresco e folkloristico.
Luigi Maria Lombardi Satriani ha sviluppato ulteriormente questa intuizione, mostrando come la cultura popolare meridionale sia la voce di comunità subalterne, espressione di conflitti, bisogni e forme di resistenza, ma anche costantemente esposta al rischio di essere depotenziata e riassorbita dall’ideologia dominante. Per entrambi, studiare il folklore significa smascherare i processi di espropriazione simbolica che trasformano pratiche di resistenza in conferma dell’inferiorità del Sud, anziché in denuncia della sua marginalità. una cultura che nasce come risposta a una condizione di oppressione viene resa innocua, estetizzata, e usata per confermare l’immagine di un Sud “colorito”, esotico e divertente. La subalternità, da conflitto, diventa cartolina. Come Pane, Amore e Fantasia. La trasformazione del folklore in cartolina è tutt’altro che innocua. La cartolina congela il Sud in un’immagine senza tempo: paesini assolati, donne che ballano scalze, vecchi che giocano a carte sotto il campanile. È un’immagine rassicurante per chi guarda da fuori, ma tradisce la complessità di un territorio in continua trasformazione. Depoliticizza la subalternità: la povertà, l’emigrazione, l’assenza di servizi diventano “colore locale” anziché questioni di giustizia sociale. In questo modo, la cartolina finisce per legittimare le disuguaglianze, perché rende naturale che il Sud resti “altro”, pittoresco, immobile. È comoda per il turismo e per l’immaginario nazionale, ma pericolosa per chi nel Sud vive: il conflitto sociale viene addomesticato, la richiesta di cambiamento si dissolve in folclore, e la subalternità diventa spettacolo.
Nel processo di costruzione immaginaria del Sud, la pop culture plasma la realtà, ma la realtà stessa finisce per diventare pop culture.
Interiorizzazione dello stereotipo: il Sud visto dal Sud
Uno degli effetti più insidiosi della costruzione culturale della subalternità meridionale è la sua interiorizzazione da parte degli stessi meridionali. Gli stereotipi non solo sono veicolati dal Nord o dai media nazionali, ma vengono assorbiti e in parte condivisi anche da coloro che ne sono oggetto. Studi psicologici recenti, come quello di Villano e Passini (2018), mostrano come molti meridionali tendano ad attribuirsi tratti stereotipici quali passionalità, tradizionalismo e legame familistico — elementi apparentemente positivi ma che, nel contesto nazionale, servono a rafforzare una rappresentazione di minor valore civico, produttivo e culturale. Questo processo, che riprende dinamiche tipiche dell’"auto-razzializzazione" nei contesti coloniali, limita le capacità di auto-narrazione autonoma del Mezzogiorno, rafforzando la sua dipendenza simbolica. Anche Durante et al. (2009), attraverso l’applicazione del Stereotype Content Model, hanno evidenziato come i meridionali vengano percepiti (e percepiscano sé stessi) come "caldi ma incompetenti", ovvero affettuosi ma inaffidabili, generosi ma inefficienti. Queste attribuzioni agiscono come profondi freni psicosociali all’emancipazione collettiva, rendendo la questione meridionale anche un nodo di riconoscimento identitario.
Bibliografia ragionata – Parte II
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Filmografia / Serialità (uso nel testo)
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Sedotta e abbandonata (1964, Germi)
La ragazza con la pistola (1968, Monicelli)
Nuovomondo (2006, Crialese)
Anime nere (2014, Munzi)
Mare fuori (2020–)
Contro-canto sull’emotività
Ciclo Troisi: Ricomincio da tre (1981), Scusate il ritardo (1983), Pensavo fosse amore… (1991)
Superstizione / magia
Questa è la vita – La patente (1954, Steno; da Pirandello)
Il demonio (1963, Rondi)
Il miracolo di San Gennaro (1965, Loy)
Operazione San Gennaro (1966, Risi)
Cristo si è fermato a Eboli (1979, Rosi)
Kaos (1984, Fratelli Taviani)
Occhio, malocchio, prezzemolo e finocchio (1983, Martino)
Benvenuti al Sud (2010, Miniero)
Crimine e immaginario
Il giorno della civetta (1968, Damiani)
Salvatore Giuliano (1962, Rosi)
La Piovra (1984–2001)
Gomorra – La serie (2014–2021)
Il cacciatore (2018–2021)
Contro-narrazioni
La mafia uccide solo d’estate (2013, Pif) e serie (2016–2018)
La nostra terra (2014, Manfredonia)
Ariaferma (2021, Di Costanzo)
Incastrati (2022–, Ficarra & Picone)
Gatta Cenerentola (2017, Rak & aa.)
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