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Di sette, libertà religiosa e avvelenamento di pozzi



di Luigi Corvaglia (link all'originale pubblicato su MicroMega +, 9 Dicembre 2022

qui)


Una religione è solo una setta che ce l’ha fatta? Al di là dell’iperbole, la domanda potrebbe a qualcuno apparire non peregrina. Posto che col termine gergale “setta” si intende una organizzazione che costringe ed abusa dei propri adepti, i sempre più frequenti scandali che coinvolgono la Chiesa di Roma inducono alcuni a non vedere differenze fra un culto mainstream ed altri che guadagnano le cronache. D’altro canto, ad avallare involontariamente questa semplificazione sono proprio alcuni difensori della “libertà religiosa” noti come “apologeti dei culti”. Ci si riferisce a quella fitta rete di attivisti a cui piace presentarsi come asettici studiosi (di una materia da loro stessi creata, cioè lo studio dei “Nuovi Movimenti Religiosi”) e che, più o meno in buona fede, più o meno gratuitamente, usa difendere in modo palesemente pregiudiziale ogni tipo di “setta” dalla diffidenza dell’opinione pubblica, dalle valutazioni critiche degli studiosi e, ovviamente, dalle impertinenti attenzioni della magistratura. Questo agglomerato di persone supplisce con la ripetizione e con l’onnipresenza mediatica alla esiguità degli argomenti, il principale dei quali è proprio che non esistono criteri dirimenti in grado di discriminare nettamente una “setta” da una religione tradizionale. Ad esempio, per difendere culti accusati di praticare l’ostracismo nei confronti dei fuoriusciti, come è il caso di Scientology e dei Testimoni di Geova, essi hanno gioco facile nel citare il Vangelo di Luca, laddove si attribuisce a Gesù di Nazareth la frase "Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, sua moglie, i suoi figli, i suoi fratelli e le sue sorelle, e anche la sua stessa vita, non può essere mio discepolo". Ovviamente, l’intento di chi si produce in spericolati prelievi dai testi sacri e avventurosi accostamenti con altre fedi – fra questi, addirittura all’atteggiamento dell’Islam nei confronti degli apostati - è di difendere il gruppo accusato ponendolo nella stessa tradizione dei credi consolidati e vincenti sul mercato delle fedi; ciò però apre anche alla riflessione sulla presenza di nuclei in grado di attivare derive settarie pure all’interno delle religioni del Libro. Non pochi fuoriusciti da gruppi ecclesiali cattolici controfirmerebbero questa considerazione. A godere della difesa di questi paladini della libertà religiosa dagli attacchi “laicisti” del “movimento anti-sette” sono stati, ad esempio, anche i Legionari di Cristo, poi rilevatasi una sorta di associazione a delinquere guidata da uno stupratore seriale di minori.

Sennonché, se questa valutazione ci dice che neppure le organizzazioni maggiori - siano esse religiose, politiche, filosofiche od economiche -, sfuggono al rischio di derive settarie di alcuni loro settori, ciò è ben lungi da avvalorare la equiparazione fra “setta” e religione. Mancano alle radicate religioni di massa tanto il controllo pervasivo del comportamento dei membri quanto, soprattutto, l’imposizione di confini netti, rigidi ed impermeabili fra l’interno e l’esterno. Indipendentemente da quali possano essere le aspirazioni delle sue autorità, nel mondo occidentale l’influenza del credo professato sulla vita della maggioranza dei cittadini è relativamente poco importante. Esso si esplica più che altro nella pretesa di influire sulle scelte collettive in modo congruente con la propria fede (divorzio, aborto, diritti LGBT+ ecc.). Detta così, però, sembra solo una questione di grado. Ogni religione si ritiene portatrice dell’unica Verità, quindi “gioca a somma zero”, cioè aspira ad occupare l’intero campo del possibile, ma ne è impedita dalla secolarizzazione; si sarebbe quindi tentati di ribaltare la sentenza posta all’inizio dell’articolo e affermare che una religione è una setta che ha fallito. Avremmo ancora una volta torto. Il vero discrimine è un altro. Più del controllo, il tema centrale è la persuasione maligna. Anche su questo i difensori dei culti non lesinano sofismi. La tesi supportata da costoro è che gli studiosi dei processi di persuasione nei gruppi “ad alta richiesta” sarebbero non credibili perché sosterrebbero che dietro le scelte radicali dei membri ci sarebbe il “lavaggio del cervello”. Un’idea falsa, ma soprattutto pericolosa, ci dicono. Infatti, questi autori non nascondono il timore che, una volta accettata l’idea della possibile manipolazione, anche la scelta di vita monastica di una ragazza borghese possa dare adito al dubbio che non si sia realmente libera e consapevole.

Il “lavaggio del cervello”, ci informano, sarebbe un concetto creato dalla CIA nell’ambito del panico comunista degli anni ‘50 del ‘900 per spiegare il successo dei rossi nel convertire i prigionieri di guerra americani alla loro causa. Sarebbe però un mito screditato dalla scienza. Come tutti i salmi finiscono in gloria, così tutte le ricostruzioni storiche del concetto di brainwashing finiscono con la citazione di un vecchio film con Frank Sinatra intitolato The Manchurian Candidate. Nel film si narra di un veterano della guerra di Corea che è stato riprogrammato per diventare, al presentarsi di uno specifico stimolo, un automa eterodiretto e uccidere il presidente degli Stati Uniti. Una versione cinematografica e grottesca della manipolazione la cui ripetuta presentazione serve a mostrare la assurdità dell’idea e, quindi, difendere guru, demagoghi e capi di congregazioni dall’accusa di praticarla.

Questo è un esempio magnifico di quello che si chiama “argomento fantoccio” (straw man argument).

Si tratta di un trucco utilizzato da chi vuole vincere una disputa senza argomentare sui contenuti. Funziona attribuendo alla controparte una tesi che questa non ha mai sostenuto. La tesi, oltre che falsa, deve ovviamente essere anche palesemente assurda, grottesca o ridicola, quindi facile a contraddirsi. Nel caso degli apologeti, il fantoccio è il “lavaggio del cervello”. Nessuno ha mai sostenuto questa tesi. In effetti, chi volesse tenere una lezione sulle fallacie logiche e fosse pertanto in cerca di esempi per l’uditorio potrebbe trovarne una fonte inesauribile nelle affermazioni degli “apologeti dei culti”. Il sofisma maligno che ha mostrato di godere maggiormente della considerazione dai difensori dei gruppi “separatisti” è nota come “avvelenamento del pozzo”. Con questa espressione si usa intendere un argomento secondo il quale quanto detto dall’avversario viene delegittimato in anticipo insinuando un sospetto sulla sua credibilità o sulla sua buona fede. In tal modo, ogni cosa che questi dirà potrà essere ignorata, considerata falsa o irrilevante da parte del pubblico. La costante opera di diffamazione di attivisti, studiosi ed associazioni che mostrano preoccupazione per i gruppi totalitari, non mira certo a dibattere sui loro argomenti, bensì a gettare dubbi sulla loro credibilità. Infatti, laddove non si arriva al vero e proprio dossieraggio personale (e vi si arriva), gli attivisti che osteggiano l’operato dei culti sono comunque etichettati come fuori dalla scienza (a causa del mito brainwashing), illiberali (perché ostili alla “liberà di culto”) o addirittura complici di dispotismi. Qualunque cosa dica il “movimento antisette” è quindi destituita di fondamento.


Per comprendere invece meglio la differenza fra persuasione indebita e Hollywood è utile leggere un libro dello scrittore giapponese Haruki Murakami. Nel suo libro "Underground" (1997) egli racconta l’attacco con il gas sarin nella metropolitana di Tokyo, che uccise nel 1995 tredici persone e intossicato altre 6000. Murakami scrive che i seguaci del culto religioso noto come Aum Shinrikyo (La suprema verità), gli autori dell’attacco, "Non erano vittime passive, ma cercavano attivamente di essere controllate". Egli descrive la maggior parte dei membri di Aum come se avessero "depositato tutto il loro prezioso patrimonio personale di autostima" nella "banca spirituale" della leader del culto, Shoko Asahara. Sottomettersi a un'autorità superiore, al racconto della realtà di qualcun altro, era il loro obiettivo. Ecco, forse a definire un gruppo abusante e totalitario è la premeditata costruzione di un sistema atto a selezionare ed accogliere questa fuga dalla libertà rinforzandola con passi lenti e graduali, giocando con la colpa e la vergogna. Questo non sarà “lavaggio del cervello”, ma di certo è manipolazione, di certo è persuasione indebita, perché mirata allo sfruttamento. Non è qualcosa che si può negare affermando che si tratta di un mito rinnegato dalla scienza, non è il “candidato manciuriano”; stiamo parlando dei meccanismi noti alle neuroscienze, alla psicologia sociale, all’economia comportamentale di Kahneman – che ha vinto un Nobel proprio per aver mostrato gli errori sistematici (bias) e le euristiche irrazionali del nostro cervello che vengono utilizzate da marketing e propaganda – come alla linguistica cognitiva di Lakoff, che evidenzia il carattere persuasivo del linguaggio. Per negare ciò bisogna essere molto ignoranti o molto in cattiva fede.


Robert Lifton, l’autore a cui si deve la nozione di riforma del pensiero, suggerisce che le persone con un certo tipo di storia personale hanno maggiori probabilità di provare questo desiderio di affidamento e cessione della propria libertà: quelle con "un senso precoce di confusione e dislocazione" o, all'estremo opposto, "un'esperienza precoce di controllo insolitamente intenso dell'ambiente familiare". Ma sottolinea che la capacità di sottomissione totalista si annida in tutti noi e probabilmente è radicata nell'infanzia, il periodo prolungato di dipendenza durante il quale non abbiamo altra scelta che attribuire ai nostri genitori "un'onnipotenza esagerata". Questo potrebbe spiegare perché molti leader di culto scelgono di presentarsi come padri o madri delle loro "famiglie" di culto.

Le "sette" sono sistemi in cui si incontrano una volontà predatoria ed un bisogno di affidamento. Le religioni istituzionali no. Queste sono contenitori del molteplice. Inclusi sistemi settari.

Questa partecipazione delle vittime deresponsabilizza forse i guru? Niente affatto. Innanzitutto, ogni totalitarismo si fonda sull’acquiescenza dei sottoposti e nessun totalitarismo avrebbe un minuto di vita in più se tutti decidessero di disobbedire. Ma quali sono i costi di uscita? Per il singolo, insostenibili. Quando il personaggio interpretato da Jack Nicholson in Qualcuno volò sul nido del cuculo scopre che gli altri pazienti dell’ospedale psichiatrico in cui venivano umiliati, abusati, vessati erano in regime di ricovero volontario ne rimane sconvolto. Scopre quindi la verità di quanto espresso da Etienne de La Boete nel suo “De la Servitù Volontaria”, cioè che ogni schiavitù è liberamente accettata. Poi su quel liberamente potremmo discutere per ore, viste le acquisizioni della neuropsicologia e della neurobiologia che ridimensionano di molto le nostre pretese di libero arbitrio. In secondo luogo, la tela del leader perverso è studiata proprio per queste mosche. Per selezionarle e poi catturarle. Un cinico sfruttamento che non possiamo mettere fra parentesi. Utilizzare il bisogno di affidamento di una persona in un momento di fragilità aggrava il giudizio morale su chi compie l’atto piuttosto che renderlo più lieve.

Possiamo pertanto concludere che l’identikit del culto abusante vede sì, i caratteri della leadership carismatica, del controllo pervasivo, dell’isolamento e del sistema di credenze trascendentali, ma come elementi che acquistano un valore ed un peso specifico nel quadro di una architettura sistemica premeditata, quindi dolosa, atta a catturare le prede e indottrinarle con passi graduali, ognuno dei quali liberamente accettato, secondo un processo che possiamo definire di “procrastinazione della defezione”, ma il cui esito finale non sarebbe mai stato concepibile all’inizio del percorso. E’ questa la differenza fra un mitico brainwashing e la manipolazione.


La tecnica utilizzata dai difensori di quei totalitarismi non territoriali che sono i culti costrittivi, come abbiamo visto, è invece quella di nascondere questa differenza. In definitiva, la loro proposta sembra ridursi a quella di una convivenza di identità spirituali che non è però mossa dal rispetto per le minoranze, ma ricorda molto il differenzialismo della Nuova Destra identitaria, che, al contrario, valorizza le differenze proprio per contrastare la universalizzazione dei diritti.

I primi a sfruttare gli errori sistematici della mente ed operare una manipolazione sono quindi proprio questi autori. Infatti, basterebbe un minimo di applicazione cognitiva per sfuggire alle trappole delle fallacie argomentative e capire che ovviamente i nuovi movimenti religiosi, l’espressione che potremmo ironicamente definire “woke” per definire i culti, non hanno motivo di essere difesi in nome di vantati principi liberali, perché nel quadro liberal-democratico la libertà di culto è intangibile. Quelli che necessitano difesa sono i culti abusanti e totalitari, cioè gruppi in cui avvengono abusi e vessazioni. Questa difesa diviene necessaria ai culti abusanti proprio perché operano in un regime liberal-democratico che gli abusi e le vessazioni le condanna. Tutto il resto è avvelenamento dei pozzi.

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