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Il senso degli eschimesi per la neve

di Luigi Corvaglia

humpty

Parole e mappe


– Quando io uso una parola, – disse Humpty Dunty in tono d’alterigia, – essa significa ciò che appunto voglio che significhi: né più né meno. – Il problema è, – disse Alice, – se voi potete dare alle parole tanti diversi significati. – il problema è, – disse Humpty Dunty, – chi è il padrone….

Lewis Carroll, Attraverso lo specchio


Gli eschimesi, dicono, hanno molte parole per definire la neve ed il ghiaccio. Gli Inuit, ad esempio, hanno termini per definire la neve che cade, la neve a terra, la neve che scende in soffici fiocchi, la neve in cumuli, la neve per costruire gli igloo, e così via. Gli Yupik, secondo un certo K. David Harrison, che mi dicono linguista, avrebbero 99 nomi per definire le formazioni di ghiaccio. Per esempio, la parola “Nuyileq”, ci dice Harrison, significa “ghiaccio rotto che comincia a espandersi, pericoloso camminarci sopra”. Questa finezza lessicale è sicuramente indicativa dell’importanza che gli elementi naturali hanno nella vita di queste popolazioni. E’ un linguaggio in cui ogni parola definisce chiaramente e matematicamente un “ente fenomenico”. Questi dati richiamano alla mente l’ingegnere e filosofo polacco Alfred Korzybski, inventore della “Semantica Generale” (GS). Concetto fondamentale della disciplina fondata da questo straordinario personaggio era che gli esseri umani non possono sperimentare il mondo direttamente, ma solo attraverso le loro astrazioni, siano esse non verbali (impressioni che derivano dal sistema nervoso) che verbali (la lingua). In qualche modo, dunque, la lingua determina il mondo. Si narra un simpatico aneddoto circa Korzybsky. Un giorno, pare, mentre teneva una lezione ad un gruppo di studenti, s’interruppe per prendere dalla sua borsa un pacchetto di biscotti avvolto in un foglio bianco. Ne mangiò uno, poi ne offrì altri agli studenti che ne avessero voluti. “Buoni questi biscotti, non vi pare?” Disse Korzybski dopo che alcuni studenti ne avevano mangiato qualcuno. Dopodiché tolse il foglio bianco mostrando il pacchetto originale sul quale c’era l’immagine di una testa di cane e la scritta “biscotti per cani”. Gli studenti videro il pacchetto e rimasero scioccati. Due di loro si precipitarono fuori dall’aula per vomitare. “Vedete signori e signore?” – commentò Korzybski – ho appena dimostrato che la gente non mangia solo il cibo, ma anche le parole, e che il sapore del primo è spesso influenzato dal sapore delle seconde”. Si, le parole disegnano la mappa del mondo, ma, come dice la celeberrima premessa della GS, “la mappa non è il territorio”. La considerazione che viene spontanea è, non solo che la mappa dell’Inuit in Groenlandia è più accurata di quella di un Pugliese in Groenlandia, ma che se utilizziamo i termini in modo meno stringente e definito di come fanno gli Inuit con la neve, la vaghezza terminologica non può che creare una indefinizione della realtà. Ciò va a tutto vantaggio di chi voglia operare una ridefinizione del linguaggio, e tramite questo, del mondo percepito, come aveva superbamente messo in rilievo anche George Orwell.

Se, novello Korzybski, offrissi, non biscotti, ma concetti come libero confronto, ordine spontaneo, sistemi in equilibrio, organizzazione autoregolata, libera scelta, molti fra i miei uditori li apprezzerebbero. Se però facessi cadere il foglio bianco dal mio metaforico pacchetto che contiene le idee, essi vi leggerebbero “mercato”. Di sicuro qualcuno rigetterebbe le idee appena apprezzate. Infatti, la gente non giudica solo le idee, ma anche le parole, e il senso delle prime è spesso influenzato dal senso delle seconde. La parola “mercato” sa di “capitalismo”. Purtroppo, a differenza degli Inuit, abbiamo solo un termine per definire il sistema economico-sociale caratterizzato dalla proprietà privata dei mezzi di produzione. Monopolio, sfruttamento, speculazione, inquinamento ambientale, oppressione della classe lavoratrice. Queste ed altre simili sono le produzioni verbali che verrebbero fuori in un ipotetico gioco delle libere associazioni con la parola “capitalismo”. Un termine forte, un luogo primario nella nostra mappa del mondo. Ci serve per orientarci. Coloro i quali non vogliono le cose elencate sopra sono contro il capitalismo, quindi contro il mercato, che ne sarebbe una sorta di sinonimo. In realtà, alle parole possiamo dare il significato che vogliamo. Il problema è che talvolta a inchiodare indelebilmente le etichette sui legni dove sono crocifissi i concetti è il martello delle ideologie. E le ideologie non sono propense a modificarsi. Non si rifiuta facilmente la propria mappa per orientarsi nel mondo. Galileo sapeva di poter dimostrare quanto diceva, se solo i preti avessero voluto guardare nel suo cannocchiale. Ma essi non lo fecero. Difendevano la mappa. Ma la mappa non è il territorio.


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Ode alla Grecia ( la storiella mi assolverà)


Con la rivoluzione del 1821 la Grecia si liberò della dominazione turca che si protraeva da circa quattro secoli. Estremamente interessante quanto avvenne nella fase di “vuoto di potere” succedutosi alla cacciata degli ottomani. La gestione del territorio, infatti, fino ad allora in mano ai rappresentanti del potere ottomano, una volta cacciate le nobili famiglie turche che detenevano le terre presso le quali gli autoctoni lavoravano in condizioni di semi schiavitù, erano diventate res nullius. Come in Oklahoma furono organizzate delle competizioni per accaparrarsi la terra durante la corsa all’Ovest, così nella provincia dell’Elide, in Grecia, il problema della distribuzione della terra fu risolto dagli stessi abitanti dividendola in lotti e organizzando delle corse con i cavalli come procedura per l’assegnazione. La cosa funzionava così: ogni famiglia esprimeva un cavaliere, e terminata la gara, il vincitore avrebbe scelto la porzione a lui più congeniale. Il secondo classificato sceglieva un altro lotto, e così via, fino che tutte le terre coltivabili non fossero state divise. Le vedove e gli orfani, affinché anch’essi potessero avere una fonte di sostentamento, non dovevano attendere la fine della gara, in quanto le comunità avevano stabilito quali terre assegnargli in precedenza. In questo modo, cioè in modo autopoietico, senza intervento esogeno e senza particolari frizioni, la vita prese un suo stabile ritmo, e i braccianti, per la prima volta dopo secoli, divennero “proprietari” delle terre che coltivavano. Il surplus di produzione che in pochi anni fu realizzato grazie alla fertilità della terra rese possibile l’inizio degli scambi con altre regioni e paesi stranieri. La vita procedeva tranquilla. L’amministrazione delle comunità affidata alle riunioni di rappresentanti non professionisti (capifamiglia, anziani, ecc.) e, pur in totale assenza di polizia, gli atti di reciproca aggressività assolutamente limitati. Ma il giorno arrivò. Il governò centrale di Atene finalmente si diede una struttura, emanò le prime leggi, e formò un esercito nazionale. Una delle prime leggi emanate riguardava la nazionalizzazione delle terre. Procedura molto democratica. Infatti, durante la gloriosa guerra di Spagna, anche gli anarchici parteciparono al governo che emanò il decreto di collettivizzazione operaia del governo autonomo di Catalogna. “In nome del popolo greco”, tutte le terre divenivano proprietà dello stato. Il primo compito dell’esercito ellenico neoformatosi fu, quindi, di espropriare con la forza le terre ai contadini che nel frattempo le avevano lavorate. In nome del popolo, ovviamente. Quelle stesse terre, poi, furono rivendute dal governo, e finirono in gran parte in mano ai grandi latifondisti dei quali il governo stesso era espressione ed emanazione. Qualche contadino riuscì a ricomprarsi la propria terra, ma le tasse che nel frattempo lo stato aveva imposto rendevano impossibile trarre guadagno dalla coltivazione diretta di piccole proprietà. Per tale motivo, questi dovettero subito rivendersele per ritornare a fare i braccianti. Ma ora i padroni non parlavano più turco, ora parlavano greco. Su queste basi è nato il moderno stato greco, democratico e liberale (fino alla parentesi del regime militare). Questa storia greca ha, come le conterranee favole di Esopo, una morale. Questa storia istruisce. Non ci insegna certo che l’optimum sia l’arcadia agricolo-pastorale, la “buona selvatichezza” rousseauiana o simili romanticismi da salotto radical-chic. E’, infatti, una vicenda che riguarda una organizzazione sociale che è più “comunità” che “società”, nel senso di Tonnies, con tutti i difetti connessi a ciò. Ciò non toglie che le vicende dell’anarchia greca offrono numerosi spunti di riflessione. Ad esempio, sembra che l’ “ontogenesi” dello stato greco ricapitoli, per così dire, la “filogenesi” della statualità storica. In altri termini, rappresenti la replica a uso e consumo dei moderni dell’opera di conquista del territorio che generò il leviatano. Non già, quindi, di quella evoluzione darwiniana dalla selvaggia orda primordiale allo stato perfettamente evoluto che sarebbe avvenuta a seguito di un’ improbabile accordo universale (ciò che Rothbard definì ironicamente “l’ immacolata concezione dello stato”). Quello che, però, più conta ai fini del nostro discorso è che la divisione dei “mezzi di produzione” e delle ricchezze non avveniva mediante atti violenti (i “mezzi politici” di cui parla Hoppenheimer), ma in base ad un comune accordo (i “mezzi economici”). Questo accordo si può, senza pudori, definire mercato, ma si ha estrema difficoltà a definirlo capitalismo. E’ mercato qualunque situazione in cui le risorse vengono utilizzate in base a regole condivise – qualunque regola, inclusa la corsa coi cavalli – ed è non-mercato ogni situazione in cui il problema venga risolto con la forza. Quest’ultima opzione, dice David Friedman, è talmente poco conveniente che “viene utilizzato solo da bambini piccoli e grandi nazioni”. Appunto. Questo semplice concetto non passa facilmente e molti anticapitalisti spacciano per alternative alle logiche di mercato situazioni comunque di mercato, solo più primitive, tipo il baratto, la compra-vendita equa e solidale, le autoproduzioni. Tutte queste cose, in realtà, sono piena espressione del libero scambio, cioè di un sistema basato su incentivi individuali. Si tratta di mercati, solo più piccoli e meno redditizi. Minor godimento, si deduce, minor peccato. E’ un ragionamento che si addice a preti e moralisti, tipo coloro i quali non vollero guardare nel cannocchiale di Galileo. La questione sulla quale questa storia ci invita a riflettere, in definitiva, è: favorisce di più il privilegio e l’accumulazione illegittima la libera contrattazione ( da sempre accusata di essere il terreno di coltura del “capitalismo da rapina”) o la regolazione dell’economia sotto la tutela di organizzazioni sovrapersonali (teorici garanti dei “diritti” di tutti i “cittadini”)? Si risponda tenendo conto che tale organizzazione potrà essere uno stato (che sia liberal-democratico a proprietà privata diffusa o socialista a “capitalismo di stato”) o anche un governo su modello del “Comitato delle Milizie” spagnolo. Ognuno è libero, ovviamente, di pensarla come vuole, ma chi ritiene che la prima condizione sia auspicabile e la seconda deleteria persegue, senza contraddizione alcuna, un “libero mercato anti-capitalista”. Grazie di aver guardato nel cannocchiale.


Falsi ossimori


Abbiamo una regola. Marmellata domani e marmellata ieri, ma mai marmellata oggi.” “Ma qualche volta ci deve essere il giorno della ‘marmellata oggi’,” obiettò Alice. “No, no, impossibile,” disse la Regina. “La marmellata è prevista a giorni alterni e oggi, sai, non è affatto giorno alterno, lo vedi da te.

Lewis Carroll, Attraverso lo specchio


Alice al tè dei matti dice “è certamente la mia lingua ma io non la capisco”. Difatti, una povera organizzazione psichica, oltre a rendere le etichette, i “significanti”, di scarsa utilità nel definire i significati, comporta anche che la logica si sviluppi sulla base di sillogismi che hanno come premesse e come conclusioni sentenze fatue e discutibili. Edward Konkin III, un ultra-liberista conosciuto per essere il fondatore della corrente nota come “agorismo”, descrive tre tipi di imprenditore: 1: l’imprenditore (buono), che corre rischi, innova, è vera forza produttrice e progressista; 2) il capitalista non statalista (neutrale), relativamente poco innovatore; 3) il capitalista statalista (cattivo) definito “il più grande male del regno politico”. Per questo teorico del libero mercato il capitalista è il più grande dei mali! Non siamo, quindi, molto distanti dal pensiero di un “socialista” come Kevin Carson, il quale definisce la propria visione politica, cioè una sorta di mutualismo di stampo proudhoniano, “libero mercato anti-capitalista”. Bene, quella di Konkin non sarà la ricchezza del dizionario Innuit alla voce “neve”, ma è già ben più del costrutto elementare di imprenditore – sempre cattivo “a sinistra” e sempre buono “a destra” – generalmente utilizzato. La semplificazione del pensiero, si ricordi, era il fine della neolingua orwelliana. La stessa nozione di “proprietà” può articolarsi ben più di quanto in uso presso le tribù che ne fanno totem o tabù. Ad esempio, Bud Spangler distingue, in buona compagnia, va detto, fra “proprietà nel senso di un ingiusto stato privilegiato e proprietà nel senso del verificarsi di un fenomeno etico sostenuto da un ampio consenso” aggiungendo che la proprietà acquisita tramite libero scambio e sostenuta dal consenso dei partecipanti “sarebbe difendibile grosso modo come si potrebbe difendere il “possesso” in un sistema di proprietà usufrutto”, concludendo che “Questa teoria della proprietà, (…) attualmente fornisce le basi per una rivoluzionaria redistribuzione della proprietà, da una plutocrazia alleata con lo stato, ai lavoratori” . Ecco, la plutocrazia alleata con lo stato è il capitalismo, se volessimo utilizzare un vocabolario stringente ed ossessivo come quello degli eschimesi. Ristrutturare la realtà ed il lessico comporta accogliere la complessità, capire che non esiste una sola neve, un solo ammasso di ghiaccio. Prevede la disponibilità all’esplorazione, la tendenza a mettere a rischio i proprio costrutti, invalidarli, creandone di nuovi più articolati e precisi. Significa, insomma, creare incessantemente sé stessi ed il mondo, anche a costo di dolorosi riaggiustamenti. Altrimenti, possiamo prendere per buona ogni “astrazione” prodotta dai nostri filtri verbali e non verabli. Come diceva Korzibski – “Ci sono due modi di attraversare facilmente la vita: credere ad ogni cosa o dubitare di ogni cosa. Entrambi ci salvano dal pensare.”

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