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Proudhon nello spazio

di Luigi Corvaglia


Soggetto per un film di fantascienza: in un futuro in cui i viaggi nello spazio sono realtà, una azienda multinazionale, la Rothbard Corporation, ha acquisito il controllo di ogni singolo centimetro del pianeta grazie a spregiudicate, ma non illegali, transazioni economiche e pianifica di espellere parte dell’umanità inviandola nelle colonie extraterrestri. Ipotesi assurda? Si, sul piano della probabilità, non su quello della legittimità logica, secondo alcuni. Infatti, esistono dei tizi che ritengono che se qualcuno diventasse con mezzi legali proprietario del mondo, questi potrebbe legittimamente espellere dal pianeta anche tutti gli abitanti. Questi tizi si chiamano giusnaturalisti. Poco importa che l’ipotesi sia improbabile o, allo stato attuale, impraticabile. Ciò che conta è che questo è l’esito di una logica che opera con limpida consequenzialità sulla base della premessa giusnaturalista. Esisterebbe, secondo questa concezione, un apriori, un requisito che preesiste al mercato come Dio all’universo: il diritto naturale alla proprietà. Se questo è naturale, perchè connaturato all’umano, ogni azione che tenda a limitare la libertà del proprietario di disporre come vuole di ciò che è suo si configura come un crimine contro natura e una lesione di diritti inviolabili. Fra questi diritti, anche lo “ius excludendi alios”, cioè quello di riempire le navicelle spaziali per scacciare le non gradite pertinenze umane della proprietà.

Partendo dalla premessa giusnaturalista, benchè paradossale, questo sarebbe un esito del “mercato”, anche se ucciderebbe il mercato stesso. Ne deriva che una eventuale resistenza armata di parte della popolazione si configurerebbe come una forma di banditismo messa in atto dai nemici del libero scambio. La schiavitù è libertà, in un mondo orwelliano.

Nel nostro film, abbiamo una rivolta contro la Corporation. Molti dei ribelli sono socialisti, collettivisti, quindi ostili alla Corporation perché contrari al concetto stesso di proprietà e di mercato. Il capo dei ribelli, però, non è un socialista. Si chiama Warren Spooner e ritiene che una organizzazione sociale che vietasse proprietà e scambio non sarebbe diversa dalla Corporation nei suoi esiti. Egli, però, non è un teorico dei diritti naturali. L’eroe senza macchia è un utilitarista. Ritiene, cioè, che la proprietà non sia necessariamente “giusta”, ma utile, nel senso che produce esiti che per la maggior parte della gente sono migliori della sua abolizione. Ritiene che sia una scelta collettiva, perché permette il libero scambio, non una immanente qualità umana. Per Warren è “mercato” qualunque arrangiamento frutto di accordo e “non mercato” qualunque soluzione che non derivi da accordo, ma imposta. Come è l’espulsione dei terrestri dal pianeta. Ne deriva che perfino la proprietà nasce dal mercato, ne è una “emergenza”. Non ha nulla di sacro e intangibile. È una convenzione, sempre rivedibile, frutto di un accordo (“facciamo che ognuno possiede il frutto del proprio lavoro”). Il mercato, cioè la gente in interazione reciproca, può quindi rivedere le sue scelte. L’insurrezione armata della popolazione e l’esproprio delle terre al proprietario del mondo sono quindi azioni “di mercato” che concretizzano le scelte degli attori che lo costituiscono. Gli esclusi devono ribellarsi per salvare il mercato. È la proprietà della Rothbard Corporation, piuttosto, che rappresenta un furto ai danni degli abitanti del mondo. Solo le proprietà individuali dei terrestri possono bilanciare questo potere oppressivo e garantire una difesa contro di esso. I singoli poteri degli individui in equilibrio garantiscono lo scambio. I briganti salvaguardano il mercato!

Il film si basa sulla contrapposizione fra queste due logiche, giusnaturalismo e utilitarismo, che stanno fra loro come l’etica del principio e l’etica della responsabilità di Max Weber.

Queste due concezioni da sempre contrapposte sono state però entrambe accolte da una medesima persona. Questi era Pierre-joseph Proudhon. Nel 1865, nella sua Quarta memoria sulla proprietà, infatti, il tipografo di Becancon approdò ad una lettura utilitaristica della proprietà proponendola quale unico argine difensivo all’abuso dello Stato. Eppure non rivide mai la concezione della proprietà quale furto proclamata nel suo famoso pamphlet del 1845, Che cos’è la proprietà. La proprietà rimane un abuso (come nel ’45), ma è anche un contropotere ad un abuso ancora maggiore, lo Stato. Ricordiamo che Proudhon fu il primo pensatore a definirsi orgogliosamente anarchico. L’elemento di interesse per il nostro film, però, è che Proudhon era un giusnaturalista. Si potrebbe quindi presupporre che nella guerra fra il proprietario del mondo e i ribelli egli si sarebbe situato fra i partigiani del primo. Invece, è proprio in quanto giusnaturalista che nel 1845 egli negava che fra i diritti naturali potesse rientrare la proprietà. È per questo che, 25 anni dopo, potrà affrontare la questione della proprietà secondo una lettura basata sull’utile. Proudhon, in pratica, smonta le pretese della Rothbard Corporation partendo dalle stesse premesse utilizzate dai proprietari a sostegno della loro legittimità. Vediamo come.


La proprietà non è un diritto naturale


Innanzitutto, il francese nota che per la proprietà, la quale si presenta quale diritto “solo in potenza, come una facoltà inattiva e fuori servizio”, viene meno il criterio di universalità che caratterizza necessariamente i diritti naturali. Sarebbe grottesco affermare che “tutti gli uomini hanno un diritto eguale a proprietà ineguali”. I diritti, infatti, sono “inalienabili” per definizione e non suscettibili di crescite e diminuzioni. Soprattutto, però, avendo la Dichiarazione dei diritti individuato i quattro diritti imprescrittibili dell’uomo in quelli alla libertà, all’uguaglianza, alla sicurezza ed alla proprietà, Proudhon nota come il quartetto sia stonato. Se realmente realizzati e rispettati, infatti, i diritti alla libertà, all’uguaglianza e alla sicurezza si completano a vicenda e portano alla concordia sociale. Armonizzano. Non funziona così per la proprietà. Scrive :

La libertà e la sicurezza del ricco non soffrono della libertà e della sicurezza del povero: anzi, possono rafforzarsi e sostenersi scambievolmente: al contrario, il diritto di proprietà del primo deve essere continuamente difeso contro l’istinto di proprietà del secondo. (…) Così il ricco ed il povero sono in uno stato di diffidenza e di guerra reciproca! Ma perché si combattono? Per la proprietà; dunque la proprietà comporta necessariamente la guerra alla proprietà! (da Che cos’è la proprietà?)

Se, in altri termini, gli altri tre diritti portano all’avvicinamento, all’unione, alla socialità, la proprietà si palesa quale diritto antisociale, dotato di una forte carica disgregante. Non è quindi su tali basi che può considerarsi un diritto “naturale”. Su quali allora? I giusnaturalisti hanno ancora due carte, quella del “lavoro” e quella dell’ “occupazione”. Partiamo da quest’ultima. E’ idea ben nota per cui si rivendica il naturale diritto all’occupazione della “terra” – intesa latamente come qualunque mezzo di produzione che non sia già in mano ad altri. Gli abitanti del nostro pianeta scacciati potrebbero legittimamente occupare la terra delle colonie extra-terrestri e appropriarsene, per poi scacciare eventuali nuovi migranti giunti successivamente. “Ci dispiace. Occupato. Siete arrivati tardi “.

Qui Proudhon riprende un discorso di Cicerone:

Il teatro, dice Cicerone, è comune a tutti; e tuttavia il posto che ciascuno vi occupa è detto suo; nel senso che è da lui posseduto, non che è di sua proprietà. Questo paragone annienta la proprietà; esso implica inoltre l’eguaglianza. Posso forse in teatro occupare simultaneamente un posto in platea, un altro nei palchi ed un terzo in galleria? (…) Secondo questo paragone, ciascuno può sistemarsi come preferisce nel suo posto, può abbellirlo e migliorarlo: ma la sua attività non deve mai superare il limite che lo separa dagli altri.(da Che cos’è la proprietà?)

In altri termini, se ogni uomo ha eguali diritti di lavorare e produrre, è ovvio che debba godere anche del diritto di occupare la terra, i mezzi di produzione. Da ciò non discende affatto la proprietà dei mezzi, ma solo il loro usufrutto. Ciò per un concetto tanto logico quanto semplice. Se nel teatro di Cicerone o nel cinema in cui si programma il nostro film entrano altre cento persone, chi già vi si trovava ad usufruire degli spazi, si stringerà per far posto ai nuovi arrivati. Toglierà cappelli e cappotti dai sedili vicini, ad esempio. Ciò vuol dire che il diritto di occupazione è variabile. Insomma,

poiché la misura dell’occupazione dipende dalle condizioni variabili dello spazio e del numero, la proprietà non può costituirsi (ibidem).

Ora i vari lettori che si imbattono nella definizione della proprietà come furto non dovrebbero più incorrere nell’errore che fu anche di Marx e di Stirner, quello di cogliervi, secondo il noto luogo comune, una contraddizione (“come si può rubare se non c’è proprietà?”) . Il furto è nel fatto che chi si considera proprietario si appropria, sottraendolo definitivamente a tutti gli altri, di un bene a cui tutti hanno uguale diritto d’usufrutto. È quello che fa la Corporation al resto degli abitanti nel nostro film.

Arriviamo ora all’argomento principe, il pilastro della teoria della proprietà. E’ quello del “lavoro”. L’idea lockiana del mescolamento del proprio lavoro alla terra fondandone la proprietà. Il proprietario ha migliorato la terra e ha creato il prodotto. “Ma chi ha creato la terra? Dio. In questo caso proprietario ritirati”, scrive Proudhon. Se è innegabile che chi produce qualcosa ha il diritto di possedere tale prodotto ( possesso), di certo non può vantare diritti sullo strumento che non ha creato (proprietà). “Il pescatore”, continua il francese, “che, sullo stesso litorale, è capace di prendere più pesci degli altri diventa forse, per questa sua abilità, proprietario dei paraggi della pesca?” (Che cos’è la proprietà?) .

Ebbene, a dimostrazione del fatto che la lettura di Proudhon non si limita alla mera e sterile ricerca dello storico, c’è proprio l’attualità della questione del lavoro che è da sempre uno degli ambiti più molli del fianco del liberismo di marca giusnaturalista. Si è, infatti, molto discusso sulla vaghezza del concetto di lavoro. Sembra che a Murray Rothbard, principale teorico dell’anarcocapitalismo, basti il lavoro di recintare un terreno per renderlo di sua proprietà. I nostri terrestri scacciati trasformati in coloni dovrebbero solo far questo nei loro nuovi pianeti. In realtà, non si capisce come stendere una recinzione lungo una strisciolina di terra possa comportare la proprietà della vasta area contenuta entro quei limiti e sulla quale non si è effettuato alcun lavoro.

Si è poi fatto notare che nulla in una recinzione migliora un luogo, per cui, se è la sola e semplice azione sulla terra a permettere di sancirne la proprietà, anche urinare in mare, qualcuno ha detto, dovrebbe rendere padroni di un certo tratto di costa!

Pur presupponendo che sia possibile definire cosa sia lavoro e cosa no, e perfino accettando che ogni lavoro comporti un miglioramento, cosa oggettivamente definisce il “miglioramento” nello stato della “terra” rispetto alla condizione precedente? Produrre onde radio migliora o peggiora l’atmosfera? Il miglioramento percepito da alcuni fruitori della “terra” in che modo comporta la necessaria accettazione della proprietà da parte di tutti quanti gli usufruttuari che non ritengono che detto lavoro abbia comportato un miglioramento? Questi sofismi, pur nei loro tratti caricaturali, evidenziano la vaghezza dei criteri in merito. Come non bastasse, procedendo ancora ad un ragionamento per assurdo che dia per scontata la logica dell’appropriazione tramite il lavoro, il punto centrale che invalida l’idea “naturale” del diritto di proprietà frutto del lavoro è nella estrema contraddittorietà che si coglie ponendosi la domanda di cosa giustifichi la proprietà dei latifondisti o dei proprietari d’industria. Questi, ricorda Proudhon, posseggono enormi territori (o fabbriche manifatturiere) che non lavorano ma da cui ricavano delle rendite. Probabilmente essi hanno lavorato in passato e, quindi, acquisito il diritto alla proprietà di tali beni. Ma oggi? Il contadino salariato, il colono, l’operaio continuano a lavorare quelle stesse terre, quegli stessi mezzi di produzione e ne trae dei prodotti. Eppure non ne acquisisce la proprietà. In base al principio per cui il lavoro fonda la proprietà, questi avrebbe diritto, non solo ai prodotti, ma anche ad una quota della terra. Ma ciò non avviene. Insomma, ciò che fu valido per alcuni, non può più essere valido per altri. La seconda ondata di coloni terrestri del nostro film non godrebbe degli stessi “diritti naturali” della prima ondata che ha fondato la propria proprietà sul lavoro. Ciò è un controsenso. In definitiva, la proprietà, che l’autore distingue nettamente dal possesso, è il fatto economico attraverso il quale un oggetto nelle proprie disponibilità diventa creatore d’interessi. (l’intraducibile droit d’aubaine). Non solo si ritrova in queste considerazioni il germe del concetto marxiano di “alienazione”, ma a Proudhon è da attribuirsi anche la paternità di quella teoria del “plus-valore”, generalmente considerata parto del pensatore tedesco. Il francese la esprime nei termini della forza collettiva:

Duecento granatieri hanno alzato sulla base in qualche ora l’obelisco di Luxor; si suppone che un solo uomo, in duecento giorni, ne sarebbe venuto a capo? Tuttavia, per il conto del capitalista, la somma dei salari sarebbe stata la stessa. (Che cos’è la proprietà?)

Il profitto del capitale è nella sproporzione fra le somme consegnate ai lavoratori per le loro singole forze e il prodotto collettivo creato, frutto di una forza collettiva non conteggiata ed intascata dal capitalista. Un furto, quello della forza collettiva, perpetrato sulla scorta del furto primordiale, la proprietà. In conclusione, ci dice Proudhon,

La proprietà non esiste per se stessa; per prodursi, per agire, ha bisogno di una causa esterna, che è la forza (l’occupazione) o la frode (far credere che dal lavoro discenda la proprietà). (Che cos’è la proprietà)

In realtà, ce ne sarebbe un’altra, ma nulla ha a che fare con i diritti naturali: è l’accordo. Ma questo è un’altro film.

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