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Il bonobo e l’anarchico


città stato

     Lo scimpanzé è di destra, il bonobo è di sinistra. Si sa. Lo scimpanzé, machista, aggressivo e intollerante dello straniero, è il classico portatore della mentalità Law and Order. Il bonobo no.  Questa scimmia antropomorfa, che vive in una pacifica società matriarcale e che regola le questioni col sesso piuttosto che con la guerra, è l’idolo della nuova sinistra etologica. Tra l’altro, pare che non si faccia problemi di orientamento sessuale. E’ curioso quali connessioni improbabili possa attivare la lettura pressoché simultanea di libri diversissimi. Un esempio di ciò sono proprio le riflessioni sugli animali umanizzati che mi si sono prodotte nella mente dalla presentazione “sinottica” di tre testi. Il primo è quello del primatologo olandese Frans de Waal (Il bonobo e l’ateo. In cerca di umanità fra i primati, Raffaello Cortina editore, Milano, 2013), il secondo, uno dei tanti libri del sociologo polacco Zygmunt Bauman (Modus vivendi. Inferno e utopia del mondo liquido, Bari, Laterza, 2007) e, l’ultimo, un manuale di psicoterapia (S. Sassaroli, R. Lorenzini, G.M. Ruggiero (a cura di), Psicoterapia cognitiva dell’ansia, Raffaello Cortina, Milano, 2006). Triade azzardata, lo so. Fatto è che il sociologo della società liquida, Bauman, cita Isahia Berlin che, a sua volta, riprende Archiloco. Quest’ ultimo scrisse una favola intitolata “La volpe e il riccio” la cui morale è che, per quanto si possano conoscere molte vie e molti trucchi, come la volpe, nulla si può contro una sola idea che funziona (quella del riccio). Berlin propone una rilettura del testo di Archiloco finalizzata a caratterizzare e dividere in due gruppi gli scrittori e i pensatori più famosi della storia, facendone prototipo di due gruppi umani. Platone, così, sarebbe un esponente della squadra dei “ricci”. Questi sono coloro i quali “riferiscono tutto a una visione centrale, a un sistema più o meno coerente e articolato, con regole che li guidano a capire, a pensare e a sentire – un principio ispiratore, unico e universale, il solo che può dare un significato a tutto ciò che essi sono e dicono». Sanno una cosa  sola, ma è quella giusta, direbbe Archiloco. Sono guidati dall’ etica del principio, direbbe, invece, il buon vecchio Max Weber. Si tratta di quel modo di agire che nasce da principi giusti a-priori e si preoccupa poco degli esisti dell’azione. In parole povere, il tipo di ragionamento di quel chirurgo che disse che l’operazione era perfettamente riuscita, ma il paziente era deceduto.

Ci sono poi le “volpi”, come Aristotele. Questi  non hanno certezze assolute e le loro azioni non sono unificate da un principio morale o estetico. Sono, insomma, pragmatici, talvolta incongruenti e, quindi probabilmente più propensi ad agire in base all’ etica della responsabilità. Essi giudicano l’ appropriatezza di una azione a posteriori, sulla base dei risultati. E’ l’etica su cui sono fondate le moderne democrazie laiche e liberali. Berlin definisce “monismo” la prima condizione psicologica, quella del riccio, e “pluralismo” la seconda”, quella della volpe. Nei ricci, la squadra capitanata da Platone, giocano  Lucrezio, Pascal, Hegel, Dostoevskij, Nietzsche, Ibsen e Proust, in quella delle volpi, capitanata da Aristotele, Shakespeare, Erodoto, Erasmo, Molière, Goethe, Puskin, Balzac, Joyce e Montaigne.  Del solo Tolstoj, Berlin disse che «era per natura una volpe, ma credeva fermamente di essere un riccio». L’autore non esita a dare al monismo dei ricci la responsabilità di tutte le feroci dittature che hanno funestato il XX secolo. Il monismo è fede in un principio, quindi è popperianamente infalsificabile, è certezza. La certezza diviene sempre zelo messianico. Lo zelo messianico produce cataste di cadaveri. Un comportamento da scimpanzé, diciamolo. Non solo perché strettamente legato all’ intolleranza, ma perché connesso perfino con la territorialità. Ed eccoci alla psicologia. Berlin stesso, del resto, aveva già instaurato un parallelismo tra monismo, che è ricerca d’unità e sicurezza, e agorafobia, che è ricerca di un luogo chiuso e rassicurante. Il monista è chi cerca la sicurezza. Come l’agorafobico. Questi diffida dell’aria aperta e chiede porte chiuse (salvo lamentare mancanza d’aria). Al contrario, il pluralismo soffre di claustrofobia. Chiede aria, porte aperte, luce. Il pluralista sperimenta nuove idee e nuove soluzioni. Ciò lo porta ad essere molto più tollerante. Quello di cui l’umanità abbisogna, dunque, non è, probabilmente, unità, perfezione, certezza, bensì scetticismo, pluralità, vale a dire incertezza e claustrofobia. Meno scimpanzé e più bonobo. Si, perché il bonobo è claustrofobico.


weber

Ansia sociale: Ipocondria securitaria a agorafobia liquida


     La paura implica prudenza. Il mio manuale di psicologia definisce “strategia iperprudenziale” quel comportamento che i sociologi scoprono solo ora. Esiste, infatti, un chiarissimo correlato fra l’ agorafobia che interessa lo psicologo e i comportamenti da angoscia sociale contemporanea. Bauman ne fa il tema del suo libro. La società contemporanea è “ossessionata” dal problema della sicurezza. Gli occidentali contemporanei hanno strutturato dei circoli viziosi tali da produrre una mole di rituali compulsivi a carattere assicurativo e preventivo di chiara marca ossessiva. Eppure, il sociologo Robert Castel lo dice chiaramente nella sua analisi sull’ angoscia sociale: “viviamo senza dubbio –perlomeno nei paesi sviluppati – nelle società più sicure finora mai conosciute”. Gli individui più viziati di ogni tempo, invece, approcciano l’informazione mediatica con lo stesso spirito con cui un ipocondriaco legge un testo di patologia medica. Vi trova tutte le ragioni per sentirsi vicino all’olocausto. Terrorismo islamista, immigrazione clandestina, microcriminalità, sono tutti segni del dramma prossimo ed ineluttabile. Il bisogno di controllo che l’ansioso percepisce è basato su un’ idea di fondo irrazionale, cioè che, oltre che utile, possedere il controllo sia doveroso e, soprattutto, possibile. Si legge nel manuale che“ciò che determina la patologia non è il desiderio di controllare “per quanto possibile” l’andamento delle cose, ma la certezza di poterlo fare” . Se ne deduce che, se non si riesce a raggiungere la certezza, si ritiene giocoforza che il problema sia il non essersi applicati abbastanza. L’effetto sarà quindi l’aumento del controllo con aumento della frustrazione e dell’ansia. Scrive a proposito dell’ansia sociale Z. Bauman, che psicologo non è, che “L’acuta e inguaribile esperienza dell’insicurezza è un effetto collaterale della convinzione che la sicurezza assoluta sia raggiungibile, con le giuste capacità e con uno sforzo adeguato (“si può fare”, “possiamo farcela”). E così, se viene fuori che non cela si è fatta, l’insuccesso si può spiegare soltanto con un atto malvagio e malintenzionato. In questo dramma, un cattivo ci dev’essere”. L’effetto è l’aumento del controllo con aumento della frustrazione e dell’ansia. La sovrapponibilità dell’osservazione del sociologo a quella dello psicologo è totale. Qui, in più, c’è la costruzione di quelle che in criminologia si chiamano le “nuove classi pericolose” (immigrati extracomunitari, soprattutto). Come si ottiene, dunque, protezione da tutto ciò? Chiudendosi, separandosi. L’ipocondria securitaria sfocia nell’agorafobia sociale. L’alienazione urbana della Los Angeles descrittaci anni fa da Davis (M.Davies, L’agonia di Los Angeles, Datanews, 1994) come vero laboratorio della medievalizzazione dei tessuti metropolitani, con tanto di cittadelle indipendenti, ponti levatoi, bravi prezzolati e telecamere ad ogni angolo a definire l’avverarsi della distopia del “panoptikon”, è ormai dilagata al resto delle metropoli. San Paolo del Brasile ne è uno degli esempi più eclatanti, ma la parcellizzazione armata è processo dal quale nessuna città è immune. I muri e l’orientamento delle telecamere distinguono “noi” da “loro”, dividono l’ordine dalla natura selvaggia. Si tratta di una spinta verso delle comunità di simili, allontanamento agorafobico dall’ alterità esterna e, al contempo, rinuncia all’ interazione interna, riducendosi l’interno ad essere un blob uniformato e indifferenziato. La “comunità degli identici” è una polizza assicurativa contro i rischi del plurale, della polifonia del mondo esterno, ma anche, ci ricorda Berlin, assicurazione di eccesso di zelo. Ad esempio, zelo nell’ allontanare gli altri, in base allo ius excludendi alios connesso alla proprietà.


rothbard

Anarco-ricci fra inferno e utopia


      In Italia esistono degli “anarchici” che affermano di rifarsi al pensiero “liberale”. Di più. Affermano di essere l’unica forma compiuta e consequenziale di quel pensiero. Loro guru, l’economista Murray Rothbard, fautore della sostituzione dello stato con le libere interazioni del mercato.  In verità, questo sedicente “anarcocapitalismo” italiano si caratterizza come secessionista e vicino alle posizioni della Lega Nord in tema di immigrazione, una commistione di reazione e rivoluzione, di autodeterminazione western e culto identitario che è l’ espressione strapaesana dei fermenti metropolitani di cui si parlava poco più sopra. Qui gli spazi da delimitare diventano quelli di indefinite “nazioni per consenso” (concetto mutuato dall’ultimo, contraddittorio, Rothbard), compattate artificialmente dalla provinciale paura agorafobica. “Mixofobia” è il termine utilizzato da Zygmunt Bauman per definire questa reazione “iperprudenziale” per gestire l’ingestibile, ossia la connaturata diversità dell’umano. Una utopia, come tutte le utopie destinata a produrre molte infelicità, come ben sa l’agorafobico. La mixofobia, quindi, è l’agorafobia del mondo liquido, di quel mondo, cioè, in cui la velocità dei processi è tale da impedire la cristallizzazione dei fatti sociali in dati strutturali, in cui le modalità sono cangianti e inafferrabili e nel quale sono venute meno le agenzie collettive di sicurezza (welfare state ecc.). Che a produrre tale forma di “chiusura a riccio”- – espressione che qui è proprio il caso di usare- sia un aggregato di individui che si rifanno alla cultura “libertarian” è decisamente paradossale, visto che questa si propone quale forma estrema e compiuta dell’idea “liberale”, un’idea, cioè, che si fonda proprio sul confronto e la libera sperimentazione in assenza di verità universali. Un’idea da volpi. Proprio la cultura liberale, intesa come ethos, ha prodotto, con la caduta degli assoluti, “le società più sicure di sempre” di cui parla Castel. E la globalizzazione di cui cantano le lodi è lo stesso fenomeno da cui si difendono. Dimentichi del passato da volpe, i nostri “libertari” si palesano quali ricci ben colmi di aculei e si fanno cartina di tornasole della deriva liberale. Potremmo dire che, al contrario del Tolstoj descritto da Berlin, essi sono per natura ricci, ma sono convinti di essere volpi.

Significativo, ed estremamente esplicativo, notare che, al suo primo affacciarsi, sul finire degli anni settanta, il libertarismo di mercato italiano si presentava con una rivista intitolata Claustrofobia. Al suo ripresentarsi sul finire degli anni novanta nella sua versione para-leghista il think thank anarco-capitalista ha propagandato il proprio pensiero, orgogliosamente politicamente scorretto, da una rivista denominata Enclave

     In buona sostanza, la reazione allo stato di cose prodotte dalla modernità può essere di tipo regressivo o progressivo. Nel primo caso, si può cadere in una romantica nostalgia per un mondo premoderno in cui la comunità era la sicura cornice dell’attività umana. Vi rientralo stesso Bauman, col suo disdegno dell’individualismo “moderno”e la sua fiducia nel socialismo, ma, paradossalmente, e per gli stessi motivi, anche una parte non piccolissima dell’anarchismo.

Poi c’è il sistema della volpe (e, un po’, del bonobo). Quello del pluralismo, del meticciato, del confronto, della libera sperimentazione. Questa è l’opzione, in senso lato, libertaria. Intendo sotto questa etichetta una concezione trasversale che contiene ogni pensare “liquido”, nemico, cioè, della scelerotizzazione, e che può ritrovarsi nell’ethos liberale delle origini. I nostri anarcocapitalisti “paleolibertari” (così si chiamano), pur affermando di richiamarsi a quell’ethos – sia in quanto “anarchici”, sia in quanto “liberali” -, rischiano spesso di utilizzare la prima delle due scelte proposteci da Italo Calvino nel suo Le città invisibili:

Due modi ci sono per non soffrire. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e sapere riconoscere chi e cosa, in mezzo all’ inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.

 Affiancare secessionismo para-leghista, mixofobia, urbanistica securitaria privata, rivolta fiscale e integralismo cattolico è sicuramente la scelta di diventare parte dell’inferno. Forse di alimentarlo. La seconda opzione spetta a chi non vuole contribuire a questa causa. Coloro, poi, che vogliono sostituire all’inferno il paradiso seguendo scrupolosamente il loro catechismo non fanno che denunciare il loro monismo. Hanno una soluzione sola, ma è quella giusta, quindi essi sono l’inferno. Ricci e volpi possono non essere così riconoscibili al primo sguardo. E fino a pochi anni fa il bonobo era considerato una specie di scimpanzé.


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