di Luigi Corvaglia (estratto da un capitolo del libro Temi di Medicina Sociale, Pensa Editrice, 2023)
L’uniformità di vedute non è una virtù nella ricerca scientifica e la concorrenza fra paradigmi rimane il motore della conoscenza anche nelle scienze umane e sociali. A tenere vivo il dibattito nell’ambito dei “cultic studies”, come la comunità di psicologi che studiano i culti totalitari ha definito questo campo di ricerca, concorrono alcune obiezioni alla determinazione stessa dei gruppi costrittivi. Queste osservazioni sono espresse da un certo numero di studiosi di Nuovi Movimenti Religiosi, perlopiù sociologi, i quali lamentano un pregiudizio negativo da parte di chi etichetta questi gruppi con una definizione denigratoria quale "sette". Fra le criticità messe in luce da questi autori vi è il fatto che molte delle informazioni sui gruppi vengano dai cosiddetti “apostati”, cioè da ex aderenti, considerati poco attendibili. Un altro appunto che merita considerazione riguarda i problemi di oggettivazione della manipolazione e dello sfruttamento. Su queste e ad altre criticità si cercherà di far luce e portare ordine con le considerazioni che seguono.
a) Su lavaggio del cervello e persuasione indebita
La trattazione precedente ha tralasciato le tecniche per concentrarsi su modalità e finalità del processo persuasivo. Focalizzarsi sulle specifiche tecniche, infatti, porta ad una reificazione del “metodo” che arriva a costituirsi nell’immaginazione di qualcuno quale entità mitica, dotata di infallibili poteri di assoggettamento. Il “lavaggio del cervello”, nato nell’ambito del panico comunista e da qualcuno inizialmente traslato al fenomeno dei culti costrittivi, risponde perfettamente ai requisiti di questa costruzione mitologica. Tale “deus ex machina” finisce per produrre un riduzionismo essenzialmente costruito intorno ad una causa, la tecnica manipolatoria infallibile e specifica, ed un effetto, l’assoggettamento. Le complesse dinamiche psicologiche, sistemiche, culturali e vittimologiche coinvolte in un processo di subordinazione al potere carismatico si riducono ad un passivo e subitaneo soggiacere della vittima alla “tecnica”. Ciò è irrealistico. Nelle pagine precedenti, invece,si è affrontato il tema della persuasione indebita alla luce di teorie scientifiche accreditate. Tanto l’economia comportamentale quanto gli studi di neuropsicologia hanno infatti messo definitivamente in crisi l’idea dell’individuo quale agente razionale (Corvaglia, 2019). Che la mente sia prona a errori sistematici, oltre che afflitta da limiti computazionali tali da non permetterle di tener conto di tutte le variabili in gioco (Simon, 1955), non è argomento di discussione. La comunicazione pubblicitaria e quella politica sfruttano da sempre queste vulnerabilità della mente umana e le tecniche di persuasione sono oggetto di molti corsi di prestigiose facoltà universitarie, scuole di management e business schools. Altrettanto indiscutibile è l’esistenza di persone narcisiste, egocentriche e senza scrupoli, oggettivamente discriminabili dall’osservazione clinica e da scale standardizzate. Alcune di queste persone sono in grado di elicitare i sistemi di funzionamento meno logici degli individui, ben noti alla neuropsicologia, arrivando ad acquisire una sorta di potere sudi essi. Sono i leader narcisisti. Il problema del potere dei narcisisti, tuttavia, è che questi presentano caratteristiche come la mancanza di empatia, la tendenza allo sfruttamento interpersonale, la pretesa per diritto indiscutibile, l'antagonismo e l'egocentrismo (Sedikides e Campbell, 2017), che possono portarli ad abusare del loro potere e ad avere un impatto negativo su coloro che guidano. Quando questo abuso di potere si realizza secondo una processualità, cioè con pianificazione, studiata gradualità e senza violenza apparente, si può parlare di manipolazione mentale, intesa quindi come espressione traslata per definire la persuasione indebita. Questo è un processo dinamico e sistemico, che prevede un ruolo attivo di tutti gli attori coinvolti, a loro volta tutti connessi all’interno di un dato set ambientale e culturale. Fra questa concezione e il “lavaggio del cervello” sul modello del Manchurian candidate non esiste alcun rapporto. Rimarcare questo concetto è fondamentale perché alcuni sociologi che rivendicano il territorio di studio che definiscono, in modo “politically correct”, dei Nuovi Movimenti Religiosi (NRMs), hanno centrato la loro critica al “movimento anti-sette” primariamente sul denunciare la non scientificità del concetto di “lavaggio del cervello” (Richardson, 1983, Barker, 1983, Melton, 1999) . Ciò rischia di apparire pretestuoso sotto molteplici aspetti. Innanzitutto, questo attacco crea un antagonista inesistente nello studioso antisette seguace di teorie destituite di fondamento. In realtà, nessun serio studioso crede al robot umano descritto inizialmente da Hunter (1951). In secondo luogo, questa attenzione alle supposte tecniche manipolatorie realizza un fondamentale obiettivo in due fasi: primo, rendere centrale e basilare la tecnica e, secondo, abbattere la struttura stessa dell’idea di culto distruttivo minando queste fondamenta con la dichiarazione di non scientificità. Tralasciare l’essenziale e fattuale (lo sfruttamento indotto) per concentrarsi sullo strumentale e accessorio (le tecniche) comporta lo svincolare chi gestisce i culti totalitari da ogni responsabilità morale. Ciò presuppone l’adepto quale agente razionale che sceglie liberamente di aderire ad un culto. Sennonché, come si è avuto modo di vedere, a dimostrarsi insostenibile dal punto di vista scientifico, più del lavaggio del cervello, è proprio questa concezione. In secondo luogo, i critici della manipolazione mentale affermano che non esista alcuna manipolazione, ma solo la persuasione che, essendo un comportamento umano naturale, non può essere oggetto di censura.
Questa logica appare proprio come espressione di una tecnica di distrazione tipica di chi voglia stimolare quel percorso periferico descritto nel testo, piuttosto che la logica consequenziale del percorso centrale. Infatti, nel concetto di persuasione indebita, ad essere sottolineato dovrebbe essere l’aggettivo “indebita”, non il sostantivo “persuasione”. Indebito significa “non etico”. Scrive Langone che il controllo mentale “si riferisce a un processo in cui un gruppo o un individuo usa sistematicamente metodi manipolativi non etici per persuadere gli altri a conformarsi ai desideri del manipolatore”. L’errore principale nella discussione sul tema è stato quello di definire la persuasione come un costrutto costituito da una sola dimensione. È necessario introdurre una dimensione ignorata, quella della finalità del persuasore, cioè la dimensione dell’interesse. Questo è un costrutto che possiamo schematizzare in un asse che ha ai due poli l’egoismo (interesse per sé) e l’altruismo (interesse per l’altro). L’introduzione di questa nuova dimensione amplifica enormemente il ventaglio dei connotati e delle tipologie espressive della persuasione (Corvaglia, 2019). Queste possono essere riprodotte spazialmente intersecando due assi secondo la tradizione dei modelli circomplessi in uso in psicologia(fig. 1).
Posto l’impegno persuasivo in asse orizzontale e l’atteggiamento verso la propria utilità personale in verticale, otterremo quattro quadranti. Immaginando che l’impegno persuasivo (o lavoro di influenza) vada crescendo muovendosi sull’asse orizzontale verso destra e che la motivazione egoistica vada crescendo dal basso verso l’alto lungo l’asse verticale, i quadranti ottenuti nella metà sinistra dell’immagine rappresenteranno l’area di minimo impegno persuasivo. La chiameremo area del disimpegno o di non influenza. Infatti, la combinazione di alto egoismo e bassa influenza sull’altro (quadrante a sinistra in alto), comporta la non curanza, l’indifferenza, che è la versione negativa del disimpegno (“non ti controllo perché non mi interessi”). Esiste poi un disimpegno di altra qualità, che potremo chiamare “disimpegno altruista”, che è espressione di rispetto per l’altro (“non ti controllo perché ti rispetto”). Lo vediamo rappresentato dal quadrante a sinistra in basso. La parte destra della figura sarà l’area dell’influenza, perché descrive l’opera di persuasione, tanto quella benigna quanto quella maligna. La prima è data dalla combinazione di disinteresse per sé e cura dell’altro. È il quadrante dell’educazione o della cura (in basso). L’educazione genitoriale, tutta orientata alla edificazione della prole, ma anche la cura degli educatori, ne sono espressione manifesta. Trovano posto in questa area benigna anche le varie forme di proselitismo ed educazione religiosa o politica di gruppi sinceramente orientati alla cura ed al miglioramento sociale o spirituale. Il quadrante in alto a destra, dato dalla combinazione di alta pressione persuasiva e interesse per la propria utilità, è l’area del controllo. È qui che è possibile collocare le varie forme di proselitismo e rieducazione finalizzate al controllo mentale e alla affiliazione a gruppi chiusi e totalitari. È questo il quadrante che racchiude i comportamenti a cui spetta la definizione di “persuasione indebita”. È a questa persuasione interessata che può essere attribuita l’etichetta di manipolazione mentale, intesa come metafora di questo proselitismo con l’intento dello sfruttamento. Allo stesso tempo, la manipolazione mentale è la messa in pratica di tecniche persuasive, non specifiche dei culti totalitari, al fine di raggiungere questo fine.
In definitiva, chi contesta, in buona come in cattiva fede, l’idea “magica” della manipolazione mentale sta lottando contro un nemico inesistente. Una strategia nota come "straw man argument" (argomento fantoccio). Si tratta di un trucco utilizzato da chi vuole vincere una disputa senza argomentare sui contenuti. Funziona attribuendo alla controparte una tesi che questa non ha mai sostenuto. La tesi, oltre che falsa, deve ovviamente essere anche palesemente assurda, grottesca o ridicola, quindi facile a contraddirsi. Nel caso degli apologeti, il fantoccio è il “lavaggio del cervello”. Nessuno ha mai sostenuto questa tesi. A definire un gruppo abusante e totalitario non è una qualche magica tecnica, ma la premeditata costruzione di un sistema atto a selezionare e guidare gli adepti con passi lenti e graduali, giocando con la colpa e la vergogna. Questo non sarà “lavaggio del cervello”, ma di certo è manipolazione, di certo è persuasione indebita, perché mirata allo sfruttamento. Non è qualcosa che si può negare affermando che si tratta di un mito rinnegato dalla scienza. Stiamo parlando dei meccanismi noti alle neuroscienze, alla psicologia sociale, all’economia comportamentale di Kahneman (1979, 2011) – che ha vinto un Nobel proprio per aver mostrato gli errori sistematici (bias) e le euristiche irrazionali del nostro cervello che vengono utilizzate da marketing e propaganda – come alla linguistica cognitiva di Lakoff (2004), che evidenzia il carattere persuasivo del linguaggio. Per negare ciò bisogna essere molto ignoranti o molto in cattiva fede.
Infatti non risponde al vero che la scienza avrebbe rigettato la teoria della manipolazione mentale. Da presidente dell’American Psychological Association (APA), Phil Zimbardo (2002) scriveva in un noto editoriale:
Il Controllo mentale è un processo attraverso il quale la libertà di scelta e di azione individuale o collettiva è compromessa da agenti o agenzie che modificano o distorcono la percezione, la motivazione e colpiscono i risultati comportamentali e cognitivi. Non si tratta né di magia né di mistica, ma di un processo che coinvolge una serie di principi di base di psicologia sociale. Conformità, acquiescenza, persuasione, dissonanza, reattanza, senso di colpa, paura eccitabilità, modellamento e identificazione sono alcuni degli ingredienti importanti dell’influenza sociale, ben studiati in esperimenti psicologici e studi di settore [...]I gruppi di ricerca di scienza sociale dimostrano che quando sistematicamente praticato da uno stato di polizia punitiva, o militare o da culti distruttivi, il controllo mentale può indurre false confessioni, creare convertiti che volontariamente torturano o uccidono “nemici inventati,” membri indottrinati impegnati a lavorare senza sosta, che rinunciano al loro denaro – e perfino alla propria vita – per “ la causa“.
b) sull’attendibilità dei fuoriusciti
Un’altra critica rilevante mossa agli studiosi di culti totalitari è che gran parte delle informazioni a loro disposizione vengano da apostati, cioè da ex membri che hanno lasciato il culto (Melton e Moore, 1982). Gli "apostati" vengono considerati inaffidabili perché hanno delle motivazioni per denigrare il culto, altrimenti sarebbero rimasti al suo interno. In pratica, la logica è quella secondo la quale non si può prendere per buona la descrizione dell’ex coniuge raccolta dall’altro coniuge. Questi o questa ha il dente avvelenato e la sua descrizione non sarà mai benevola. L’obiezione è sensata, ma è pur vero che se una moglie afferma che il marito sia violento nei suoi confronti non c’è alcun motivo per essere pregiudizialmente a favore del marito. Ogni accusa va provata e tutte le testimonianze vanno vagliate attentamente. Se diffidenza deve esserci, dovrebbe quindi essere bi-direzionale. Del resto, quando anche esistesse acredine e, quindi, un movente per parlar male di un gruppo di cui si è fatto precedentemente parte, ciò non comporterebbe automaticamente l’essere in malafede. Come si scrive in un testo non ancora pubblicato:
Se non ci si avvalesse delle testimonianze degli ex, ovviamente vagliate e controbilanciate da fonti interne a qualunque movimento oggetto di studio, sarebbe impossibile lo studio dei partiti politici (i libri di Amedeo Bordiga, Angelo Tasca, Lev Trtozky, Ignazio Silone, Enzo Bettiza, tutti “apostati” antistalinisti, alcuni rimasti comunisti e altri no, vengono studiati per capire l’altro lato della medaglia dei partiti comunisti filosovietici e dell’Unione Sovietica, controbilanciati da scritti di ferventi comunisti), la lotta alla mafia o ad alcune organizzazioni ritenute pericolose[...] Chi meglio di un ex può infatti svelare al mondo esterno i segreti di un culto religioso? [...]Bisogna dunque valutare le testimonianze in altro modo, basandosi sulla loro numerosità, esulla loro concordanza, e sul livello di riscontro [...]
Scriveva invece la Singer (1996) che
Gli apologeti dei culti incolpano le vittime e proteggono i cattivi. Come i vecchi re pazzi, sparano al messaggero che porta cattive notizie. Una delle posizioni più illogiche assunte dagli apologeti è la loro pretesa che solo gli attuali membri di un culto dicano la verità. Tuttavia, i risultati di molti ricercatori, così come le mie numerose interviste con gli ex membri, dimostrano che i membri di un culto sono talmente dipendenti dal gruppo quando sono dentro che non osano dire la verità, non osano lamentarsi.
Dal canto suo, Beit-Hallahmi commenta:
Le catastrofi recenti e meno recenti riguardanti i NRMs ci aiutano a capire che in ogni singolo caso le affermazioni di esterni ostili e detrattori sono state più vicine alla realtà di qualsiasi altro resoconto. Fin dalla tragedia di Jonestown, le dichiarazioni degli ex-membri si sono rivelate più accurate di quelle degli apologeti e dei ricercatori di NRMs.
In Giappone gli "apostati" avevano denunciato per anni, prima dell’attacco al gas nervino nella metropolitana di Tokio, il pericolo di un attentato da parte di AUM. Hanno fatto esposti alla polizia, che non è intervenuta perché AUM era una "religione". Nel 1978, Deborah Layton Blakey, un’apostata del Tempio del Popolo del reverendoJ ones aveva previsto la possibilità di un suicidio di massa a Jonestown. Lo aveva dichiarato all’ambasciata americana a Georgetown in Guyana, quindi fece una deposizione giurata (affidavit) negli USA, mesi prima dell’eccidio.
c) Sull’argomento liberale (ovvero, del differenzialismo degli apologeti dei culti)
Questo argomento non è particolarmente sottolineato dagli studiosi di NRMs, ma rimane il cavallo di battaglia di una moltitudine di associazioni e federazioni che conducono una lotta a quello che chiamano il “movimento anti-sette”, in nome delle libertà civili. L’argomento è semplice: in una società aperta, l’individuo è libero di scegliere della propria vita e di aderire al gruppo che desidera. Il sillogismo proposto da alcuni paladini della libertà religiosa porta automaticamente a etichettare gli oppositori delle pratiche restrittive e degli abusi di potere nei culti quali nemici della libertà religiosa e della libera scelta, pertanto degli illiberali. Il richiamo al “fascismo” non è neppure troppo velato . È il caso di dare uno sguardo più approfondito alle componenti di questo argomento. Il primo riguarda la libera scelta dell’individuo.
c1 - Ogni individuo deve essere libero di fare le sue scelte di vita. Qualunque interferenza è illegittima e totalitaria. Ciò è incontestabile, nel quadro della società liberale. Ognuno deve essere libero di fare le scelte che vuole, incluse quelle che possono fargli male, come aderire ad un culto distruttivo o assumere sostanze additive. L’uomo che più efficacemente espresse il concetto fu, nel XIX secolo, Lysander Spooner, autore di I vizi non sono crimini. Il noto abolizionista della schiavitù iniziava il suo classico pamphlet libertario con queste parole:
I vizi sono quelle azioni con le quali un uomo danneggia sé stesso e i suoi averi. I crimini sono quelle azioni con le quali un uomo danneggia la persona o gli averi di un altro. I vizi sono semplicemente gli errori che un uomo commette nella ricerca della propria felicità. A differenza dei crimini, essi non implicano malvagità nei confronti degli altri né alcuna interferenza con la loro persona o i loro averi.
In altri termini, una cosa è “commettere errori nella ricerca della felicità” senza arrecare danno alla persona ed alla proprietà altrui, cosa che nessuno ha il diritto di impedire se non è portatore di un paternalismo e di un’etica del principio, per dirla con Weber, altro è danneggiare “la persona e gli averi altrui” con “malvagità”. L’encomiabile intento del libertario Spooner era di distinguere le due condizioni perché non venissero puniti i vizi invece dei crimini. La difesa pregiudiziale dei culti però, invece, rischia di confondere i due piani e far sparire i crimini, cioè l’azione dei leader totalitari che mirano a danneggiare “la persona e gli averi di un altro”. In nome della “libertà”, si ottiene così quella situazione che James Joyce definì “libera volpe in libero pollaio”.
c2 - Quanto alla libertà di culto, una delle più grandi e centrali conquiste della società nata dalle rivoluzioni liberali del XVII secolo, vale sempre la pena di ribadire la citazione di uno dei più grandi rappresentanti del pensiero liberale e difensori della laicità, Gaetano Salvemini:
Il clericale domanda la libertà per sé in nome del principio liberale, salvo a sopprimerla neglialtri, non appena gli sia possibile, in nome del principio clericale.
Se la acuta notazione di questo gigante del liberalismo aveva quale oggetto la pretesa della Chiesa di interferire nelle vicende secolari, chiedendo il diritto alla illiberalità sulla base dei principi liberali, ancor più grottesco e lampante appare il paradosso quando la richiesta viene compiuta da gruppi noti o discussi per pratiche vessatorie o pericolose per gli adepti.
È chiaro che i nuovi movimenti religiosi non hanno motivo di essere difesi, perché nel quadro liberal-democratico la libertà di culto è intangibile. Quelli che necessitano difesa sono i culti abusanti e totalitari, cioè gruppi in cui avvengono abusi e vessazioni. Questa difesa diviene necessaria ai culti abusanti proprio perché operano in un regime liberaldemocratico che gli abusi e le vessazioni le condanna.
c3 - Ritornando quindi al tema del liberalismo e dei diritti individuali, alla fine si vede che alcuni difensori di quelli che definiscono NRMs risultano perfettamente omologhi ai fautori del differenzialismo culturale, la concezione politica che proprio del liberalismo e dei diritti universali è la nemica più fiera e acerrima. Il differenzialista difende il “diritto alla differenza” di tutte le culture, vuole cioè la salvaguardia delle identità dei popoli. Benché questa possa apparire, come per le dichiarazioni degli “studiosi di NRMs”, una affermazione di universalismo ed ecumenismo, il differenzialista è un nemico della società aperta. Il differenzialista pensa cioè che gli “stranieri” debbano rimanere tali, vivendo «tra loro» e mantenendo i propri riferimenti culturali e valoriali, perché loro “sono diversi” e tali devono restare. Egli ne difende il “diritto alla differenza” proprio per evitare che altre culture si mescolino o confluiscano nella sua. Si parla a tal proposito di razzismo differenzialista. Questo differenzialismo, che è difesa del proprio gruppo chiuso,difende gli altri gruppi chiusi anche dallo Stato, dalle pretese della società aperta, cosicché questa non abbia ad interferire anche nel proprio gruppo. Dietro ai proclami libertari e rispettosi delle culture allogene, questa concezione mira al recupero ed alla difesa delle singole culture perché) diventino contrappeso all’ideologia globalista; quindi proprio all’universalismo dei diritti umani. Come non sorprende che i fautori del differenzialismo siano esponenti dell’estrema destra politica che coniano una propria incongruente versione di “multiculturalismo”, così non è strano che i difensori del “diritto alla differenza” delle “sette” siano spesso esponenti di visioni tutt’altro che ecumeniche che propongono la propria incongruente versione di “ecumenismo”. Questi, infatti, propongono un “multi-cultismo”, che è laversione mignon del multi-culturalismo della Nouvelle Droite, ma somiglia più alla pax mafiosa. Ecco quindi che si ritrovano nelle medesime associazioni per la difesa della libertà religiosa esponenti dei culti più chiusi, illiberali e incompatibili. Membri d’alto grado di culti distruttivi noti alle cronache, cattolici tradizionalisti, satanisti, guru del sesso tantrico, fedeli di religioni che credono che chi non segue il loro credo sia dannato per l’eternità, micro comunità chiuse ed intransigenti, tutte insieme (appassionatamente) contro chi denuncia lo sfruttamento nei culti. In nome della società aperta.
d) sui problemi di oggettivazione
L’argomento recita che la manipolazione non è oggettivabile. Non esiste infatti un limite individuabile al di sopra del quale o al di sotto del quale possiamo essere certi che si sia attuata o meno una persuasione indebita. Tutta la vita sociale è incentrata sulla persuasione. La scelta di un partner, il voto politico, l’acquisto di una giacca, una gita fra amici, ecc., qualunque azione comune e qualunque scambio fra individui implica la persuasione. Queste osservazioni sono inconfutabili. Ad essere confutabili sono le deduzioni che gli apologeti ne traggono. Da entrambe si fa derivare la conclusione che la manipolazione non esiste (“Nessun criterio di manipolazione? Nessuna manipolazione”, “Tutti influenzati? Nessuno influenzato”). Il ragionamento è alquanto naif. Infatti, è ovvio che cose e fenomeni esistono o non esistono indipendentemente dalla nostra capacità di oggettivarli. Vediamone due esempi: Il primo è quello dello sfruttamento economico. Un lavoratore che è disposto a lavorare per una paga bassa è sfruttato o meno? Sicuramente al diminuire delle alternative di lavoro e della paga offerta si è più certi del fatto che il datore di lavoro si approfitti dell’indigenza del prestatore dell’opera; eppure non esiste un discrimine oggettivo che delimita lo sfruttamento dal non sfruttamento, visto anche che il lavoratore accetta di buon grado, o addirittura chiede espressamente, che il datore tragga giovamento dalla sua condizione. Questa mancanza di oggettivazione non vuol dire che lo sfruttamento non esista; in altri termini, la indeterminatezza del confine non rende senza senso il concetto di “sfruttamento”, indipendentemente dalla valutazione morale che potremo farne. Lo sfruttamento, inteso come l’approfittarsi di una condizione di vantaggio impedendo che un individuo non ostile ottenga una utilità potenzialmente possibile, è un dato inconfutabile. La maggioranza delle persone considerano lo sfruttamento in termini negativi, come una cosa turpe. Fa eccezione la frangia politica estrema nota come anarco-capitalismo. Walter Block (1995), ad esempio, si produce in una interessante difesa de “Lo sporco capitalista sfruttatore di mano d’opera” nel suo Difendere l’indifendibile. Visto comunque in termini positivi (come fanno gli anarco-capitalisti) o negativi (secondo molti altri), il fenomeno esiste, indipendentemente dal fatto che non sia oggettivabile. Il secondo esempio di fenomeno non oggettivabile, ma esistente, è quello delle patologie psichiatriche. È difficile negare che la Schizofrenia sia una malattia, grave, dolorosa e apportatrice di sofferenza per tutto l'entourage del malato. Eppure, non esiste alcun test biologico o esame obbiettivo per dimostrarla. C'è la clinica. Ci sono i sintomi. Anche in questo caso, però, il confine fra patologia e non patologia è labile. Lo psichiatra Allen Frances (2013) , molto critico degli eccessi diagnostici, scrive:
Alcuni critici radicali della psichiatria hanno approfittato delle ambiguità insite nelle sue definizioni per sostenere che la professione non dovrebbe nemmeno esistere. Sostengono che la difficoltà di trovare una definizione chiara di disturbo mentale dimostra che il concetto è privo di utilità e senso: se i disturbi mentali non sono malattie anatomicamente definite, saranno allora “miti” ed è meglio evitare di darsi da fare per diagnosticarli.
È esattamente la stessa pretesa degli apologeti rispetto alla manipolazione mentale. Se questa non può essere chiaramente definita, sarà allora un “mito” ed è “meglio evitare di darsi da fare” per individuarla. Continua così Frances:
Questa posizione risulta attraente soprattutto per i libertari, preoccupati di proteggere la libertà di scelta dei pazienti rispetto a quelle che percepiscono come le catene della schiavitù psichiatrica.
Anche qui la sovrapponibilità con il discorso della persuasione indebita è completa. I“libertari” si appellano alla “libera scelta”. Ancora Frances:
A questo paradosso possono credere solo teorici da salotto, privi di esperienza di vita vissuta, persone che non hanno mai sperimentato o curato la malattia mentale.
Similmente si può dire di chi arriva al paradosso di negare la persuasione indebita. Quello che deve essere l’approccio ad un fenomeno dai confini indistinti è chiaramente spiegato da Frances:
Il modo migliore di capire l’essenza del disturbo mentale – cosa lo è e cosa no – è paragonare il modo di procedere di tre guardialinee rispetto a fuorigioco e posizioni regolari. L’epistemologia in gran parte si riduce a un conflitto di opinioni sulla nostra capacità di capire la realtà.
Guardialinee 1: “Ci sono posizioni regolari e fuorigioco e io li fischio per quello che sono”.
Guardialinee 2: “Ci sono posizioni regolari e fuorigioco e io li fischio quando li vedo”.
Guardialinee 3: “non ci sono né posizioni regolari né fuorigioco finché non li fischio io”. Guardialinee 1 pensa che i disturbi mentali siano “malattie”; Guardialinee 3 che siano miti immaginari; Guardialinee 2 che siano una via di mezzo: costrutti utili a fornire niente di più (e niente di meno) della migliore ipotesi disponibile per risolvere i problemi psichiatrici. Guardialinee 1 ha una fiducia enorme nella nostra capacità di cogliere la vera essenza delle cose (...). Guardialinee 3 ci offre la prospettiva opposta: lo scetticismo e il dubbio solipsistico di chi pensa che l’uomo non riuscirà mai ad afferrare per la coda la proteiforme realtà o a conoscerla per quello che realmente è. (...) Guardialinee 2 “fischia i fuorigioco quando li vede”.
Traslata all’ambito della persuasione indebita, la posizione degli apologeti è quella del Guardialinee 3: “scetticismo e dubbio solipsistico”, luoghi comuni di un libertarismo “da salotto”. Per questi autori la manipolazione è un “mito”. Alcuni anti-sette ci appaiono invece come il Guardialinee 1 che pensa di poter oggettivare e cogliere il fenomeno. Il buonsenso ci impone di essere il Guardialinee 2, il quale “segue una versione molto concreta del pragmatismo utilitaristico”. Infatti, nonostante la indefinizione di una “zona grigia” fra la persuasione sulla quale non sorgono dubbi di legittimità e quella che li fa sorgere, ci sono casi in cui molti indizi presuntivi rendono la malignità della induzione evidente. Sono fuorigioco che si vedono e andrebbero fischiati.
Che non esista un discrimine fra acqua calda ed acqua fredda non implica che non sia possibile distinguere le due condizioni. Il ragionamento di alcuni, invece, è paragonabile a quella di chi mettesse dieci uomini sotto dieci docce a calore crescente in una fila e se la prendesse con l’ustionato dell’ultima cabina perché urla con l’argomento che non c’è alcun criterio oggettivo per definire quando l’acqua diventa troppo calda. Il classico stile ideologico per cui se i fatti non si adeguano alla teoria, tanto peggio per i fatti.
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