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I capelli di Foucault

Luigi Corvaglia

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Michel Foucault


1. Due francesi


Se dicessi che la cosa che più apprezzo di Michel Foucault è la pettinatura, qualcuno mi farebbe notare che il filosofo era calvo. Se dicessi, invece, che ciò che più apprezzo di lui è il suo anarchismo, nessuno avrebbe da obiettare. Sennonché, l’anarchismo prevede l’amore per la libertà quanto una pettinatura prevede dei capelli. Si dà però il caso che la calvizie del francese sia un dato evidente e dimostrabile, benché questi appartenesse ad un filone di pensiero, il post-modernismo, che nega valore ai fatti abbassandoli al rango di opinioni; invece, la decantata valenza libertaria del suo pensiero è solo un’ opinione elevata a fatto. Dell’amore per la libertà di Foucault si può avere un valido saggio leggendo i suoi entusiastici reportage dall’ Iran integralista di Khomeini. Infatti, inviato a Teheran dal giornale italiano “Il Corriere della Sera” nell’immediatezza della rivoluzione del ’79, Foucault fu conquistato dalla “bellezza” del regime medioevale dell’ Ayatollah. A chi gli chiedeva come potesse trovare così bello il totalitarismo teocratico, rispondeva


Essi non hanno un regime di verità equivalente al nostro che, d’altro canto, è del tutto particolare anche se è diventato quasi universale.1


Il sistema per evitare una domanda scomoda è sempre quello di affermare che la domanda è sbagliata. Il sistema francese è dire che la domanda è sbagliata perché presuppone l’esistenza della realtà. E’ nella realtà, infatti, che stanno le fucilazioni di regime, la discriminazione delle donne, le esecuzioni per adulterio e quelle per omosessualità (quindi, anche per Foucault, fosse stato iraniano). Ma i khomeinisti, ci dice Foucault, hanno un “regime di verità” differente. Infatti, la nostra verità, che crediamo universale è, invece, “del tutto particolare”. Ora, se la realtà non è oggettiva ed è solo una lettura fra le tante possibili, se non esistono conoscenze ma solo punti vista, se giustizia e diritti non sono dati universali ma concetti locali e storicizzati, il giudizio su qualsiasi cosa diventa impossibile, perché sempre arbitrario. E’ proprio questo il messaggio di impotenza che viene annunciato da quel vasto fiume di teorie (decostruzionismo, strutturalismo, post-strutturalismo, ecc.) che danno forma al “pensiero post-moderno”.

Affondato nello scetticismo di Nietzsche e Heidegger, due autori connessi più al nazismo che a idee di liberazione, il postmodernismo passa per una filosofia libertaria, egualitaria e progressista. Chiameremo questo approccio indifferentismo relativista, perché nucleo ne è il relativismo radicale.


Restiamo in Francia. Due signori discutono sul divieto del velo per le ragazze musulmane che frequentano la scuola pubblica. Uno dei due è un cittadino democratico e di mentalità aperta, l’altro un esponente di un movimento di estrema destra. Chi dei due è più probabile che ritenga giusto salvaguardare il diritto della ragazza ad indossare il velo? Avete detto il primo? sbagliato, è il secondo. Infatti quest’ultimo è Alain de Benoist. Questi è il principale esponente della Nouvelle Droite. Sotto questo nome si raggruppa un movimento d’opinione conservatore, reazionario, anti-moderno ed anti-egualitario. Eppure, davanti all’ idea di censurare i costumi altrui in nome dei diritti civili la sua risposta è indistinguibile da quella del radicale di sinistra Foucault. Infatti, dice:


È essa [la modernità, NdR], infine, che ritroviamo nell’avvento della nuova religione dei diritti dell’uomo, che pretende di sottomettere la Terra intera ai suoi diktats giuridici e morali.2


In altri termini, de Benoist ci dice che ogni popolo ha una sua scala di valori morali, pertanto l’imposizione dei valori dell’Occidente (“la nuova religione dei diritti dell’ uomo”) è una forma di imposizione di una idea dominante, quella liberal-democratica, che si vuole universale. Le affermazioni di de Benoist e Foucault sembrano due mele cadute dallo stesso albero. Il marxista eretico e libertario (nonché calvo) rifuggiva le ideologie universaliste e cercava rifugio negli spazi marginali, celebrando qualunque cosa gli paresse non assimilabile, dalla teocrazia iraniana ai feticci sadomasochistici. Il criptofascista amante del paganesimo nordico rifugge l’universalismo moderno e celebra qualunque cosa gli appaia non ancora assimilato, dal velo islamico alle mutilazioni genitali femminili. Il paradosso del libertario che esalta il khomeinismo (libertarismo totalitario) fa quindi il paio col paradosso del fascista che rispetta le culture non europee e difende i costumi delle minoranze in nome del “diritto alla differenza” (totalitarismo libertario).


La Nouvelle Droite osteggia tutte quelle politiche che mirano a superare naturali forme di arretratezza o di barbarie quali la discriminazione delle donne o, addirittura, l’infibulazione. Ciò perché opporsi a queste pratiche distruggerebbe le radici culturali di un’etnia, quindi la sua identità. A prima vista, chi difenda la libertà di una studentessa di portare il velo a scuola appare persona aperta e democratica, un tutore della libertà personale e dei diritti dell’individuo. Il tipo di proposta della Nouvelle Droite, però, è solo apparentemente rispettosa di fedi e costumi. Nel nome delle differenze fra culture, ritenute inconciliabili, si propone infatti un “multiculturalismo” ben lontano dall’idea del “meltin’ pot”, della confluenza di tutti in un gran calderone nel quale si sviluppano varie forme di incrocio e arricchente “meticciato” culturale, bensì la creazione di isole culturali non occidentali all’interno dei paesi industrializzati, proprio al fine di evitare tale confluenza e commistione. Una logica, fa notare Pierre-Andrè Taguieff, che nel passaggio dalla razza alla cultura non perde un grammo della sua carica di pregiudizio. A ciò si è dato nome di razzismo differenzialista.

Ai fini del nostro discorso, che è centrato sulla neutralità di alcune correnti di pensiero nei confronti di idee e pratiche incompatibili con i diritti umani, useremo la definizione di indifferentismo differenzialista.


De-Benoist

Alain de Benoist


2. Culti e multiculturalismo


Riduzione in schiavitù, sfruttamento, abusi, umiliazioni, violenze fisiche e psicologiche non sono solo il portato di larghe culture non occidentali. Infatti, se una cultura è un patrimonio di idee tipiche di vasti aggregati umani, i sistemi di credenze e costumi condivisi da gruppi umani ristretti sono delle micro-culture. Queste possono essere culti religiosi minoritari (le cosiddette "sette") oppure congreghe di seguaci di pratiche mediche alternative o, ancora, i gruppi ideologici estremisti. Questi aggregati si configurano spesso come gruppi totalitari. Così come per le “meta-culture”, anche nei confronti dei gruppi coercitivi ci si può porre in due modi, quello della censura e quello dell’indifferenza. In una società liberale e democratica è prevalente la scelta indifferentista in nome della laicità e del multiculturalismo, ma, come abbiamo visto, si fa presto a confondere il “grano” con l’ “oglio”, il liberale con il partigiano dei totalitarismi, il fascista col difensore delle minoranze.

Il problema sorge quando a fronte di un proclamato distacco avalutativo, i supposti indifferenti si ergono a difensori dei culti contro le pretese di chi li ritiene luoghi di abusi e vessazioni. Un disinteresse che finisce non appena si toccano gli interessi dei gruppi coercitivi. I cosiddetti “apologeti dei culti” ricalcano quindi le logiche già viste per le culture ampie, cioè l’ indifferentismo relativista e l’ indifferentismo differenzialista.


Apologeti liberali


Alla prima tipologia si rifanno alcuni difensori dei culti che si considerano portatori della cultura liberale. Essi sono ovviamente relativisti, nel senso che ritengono che nessuno possa imporre un’unica visione del mondo e auspicano, quindi, quello che Max Weber definiva “politeismo dei valori”. Questa non può che essere un’idea emencipativa e di progresso, perché sappiamo bene che il relativismo occidentale è da sempre il nemico dell’assolutismo religioso e politico, quindi la vera base della libertà. Se non possiedo verità indiscutibili non vorrò mai imporre dogmaticamente, ex auctoritate, qualcosa a chicchessia. Il concetto di laicità è tutto qui. Intessuto com’è di relativismo, pluralismo, libertà e tolleranza. Presentarsi come relativisti è quindi un ottimo biglietto da visita per un progressista. Peccato che spesso questo progressismo sia concreto come i capelli di Foucault. Infatti, una cosa è affermare che non si possa mai dire di possedere la verità, concetto base del liberalismo, un’altra affermare che la verità non esiste, che è una costruzione culturale. Certi sedicenti liberali passano talvolta di straforo questo confine. Come scrive Maurizio Ferraris:


Curiosamente, la “scuola del sospetto”, l’idea che si debba dubitare di tutto nasce come un esercizio critico, ma può avere esiti a dir poco dogmatici, perché ci insegna a dubitare non solo delle menzogne, ma anche delle verità, rendendo con questo un eccellente servizio al falso, che viene posto sullo stesso piano del vero. Questo principio, che se applicato alla scienza rende indistinguibile un medico da uno sciamano e un astronomo da un astrologo, risulta particolarmente drammatico nel caso della storia, perché fa calare un condono tombale sulle peggiori tragedie dell’umanità.3


Questo comporta un duplice aiuto ai gruppi “alternativi”. Innanzitutto, un pensare che rifiuta il valore delle prove e rende “indistinguibile un medico da uno sciamano e un astronomo da un astrologo” facilita l’emergere di gruppi ostili alla scienza e basati su spiritualismi e soggettivismi. Questo avviene in un modo che è paradossale, perché, a dispetto del proclamato antiautoriarismo relativista, l’autorità, cacciata dalla porta, rientra dalla finestra. Come scrive Giovanni Jervis,


In pratica non è vero che tutti i pareri siano ugualmente autorevoli; a qualche individuo più che ad altri – abbiamo tutti bisogno di padri, diceva Freud – viene attribuita una dose insolita di saggezza. In questo modo rifiutando l’autorità degli esperti ci si ritrova fra le braccia dei santoni.4


Oltre a contribuirne allo sviluppo, l’ “antiautoritarismo” relativista è un valido aiuto nella difesa dei gruppi totalitari. Infatti, gli apologeti dei culti difendono, con coerenza liberale, l’esistenza di ogni credo e pratica, ma il loro approccio diviene spesso analogo a quello di Foucault con l’Iran khomeinista. Presi, cioè, dalla foga libertaria rischiano di sorvolare su quanto di illiberale avviene nei culti. Questa è la maggiore contraddizione del relativismo culturale radicale. In altri termini, i suoi fautori pongono in premessa la superiorità dei criteri di laicità e tolleranza propri della cultura liberal-democratica, esattamente perché le altre culture non sono in grado di offrire niente di simile. Dopodiché, pretendono che gruppi o società che non accettano tali principi non vadano giudicate proprio in nome della relatività delle interpretazioni storiche della umana convivenza. Essi, in altri termini, dopo aver giudicato superiore la cultura includente e tollerante, giungono ad affermare l’equivalenza nel valore e nel diritto di ogni espressione culturale, incluse quelle intolleranti, dichiarando illegittima ogni comparazione. Scrive Nico Berti:


Questa bislacca conclusione deriva dall’uso clamorosamente illogico dei criteri epistemologici propri del paradigma relativistico, che è teoricamente affermato, ma praticamente negato (sono, infatti, finti relativisti ma veri antiliberali)5


Che i difensori dei culti siano finti relativisti e veri antiliberali è dimostrato ogniqualvolta dalle seconde e terze file delle compagini di partiti e movimenti di ispirazione liberale si alzano peana a favore dei gruppi più indifendibili dal punto di vista etico e veri e proprie “crucifige” nei confronti di chi ne denuncia le malefatte, paradossalmente accusati di essere i nuovi “inquisitori”. I più naif fra gli esponenti della cultura relativista, insomma, derubricano abusi, manipolazioni, minacce, ricatti, violenze fisiche e psicologiche ad atti che non possono essere interpretati se non con un “regime di verità” locale e particolare, quello del gruppo. In questo modo, il diritto di culto e di associazione si mangia i diritti dei singoli individui producendo un paradosso imperdonabile per i veri liberali. Infatti, l’atteggiamento dei partiti sinceramente liberali è sempre stato di censura nei confronti dei regimi dittatoriali e di lotta alle pratiche offensive per la dignità umana. Ad esempio, le mutilazioni genitali femminili. Su questa aberrante pratica i partiti e movimenti liberali, come il Partito Radicale Transnazionale, hanno condotto forti campagne per l’abolizione6. Il paradosso è che se queste pratiche fossero compiute in un gruppo religioso minoritario gli esponenti meno svegli di questi stessi partiti ne difenderebbero la pratica in base al criterio relativista.

Non si avvedono, questi paladini della libertà dell’aguzzino, di essere gli utili idioti dei promotori dei culti. Questi ultimi si richiamano ai principi di libertà operanti fuori dai confini del culto per potersi permettere di negarli all’interno del gruppo. Fu uno dei maggiori liberali italiani, Gaetano Salvemini, a notare che


Il clericale domanda la libertà per sé in nome del principio liberale, salvo a sopprimerla negli altri, non appena gli sia possibile, in nome del principio clericale.7


Ciò è ancora più evidente sostituendo “clericale” con “guru”. Questa osservazione dimostra la differenza fra un gigante del pensiero e dell’azione liberale e i nanetti che si credono tali.


Apologeti differenzialisti


Gli apologeti di secondo tipo sono fondamentalmente membri di culti. Hanno dunque motivazioni più solide. La difesa che questi fanno del diritto alla differenza è assolutamente analoga a quella delle culture allogene nel razzismo differenzialista. Questi non ritengono affatto che tutte le idee, fedi e culture si equivalgano, ma propongono un “multiculturalismo” che permetta di salvaguardare le identità di ogni singola “cultura” in quanto questa legge generale comporta la salvaguardia della propria cultura in particolare. Una apertura posticcia, come i ricci sulla testa di Foucault. Nulla a che vedere, quindi, con il pensare liberale. Anche in questo caso, però, in nome del “rispetto” per le tutte le culture – si legga “i ricci di Foucault” – si finisce col dare eguale dignità alle idee democratiche come a quelle che, in nome del fanatismo religioso, negano la democrazia.

Questo tipo di logica, quando applicato sul larga scala, comporta una convivenza con gli immigrati incentrata non sull’assimilazione, bensì sulla sopportazione. In tal caso, lo stato democratico rinunzia ad una parte dei propri diritti a favore di gruppi che non credono nella democrazia. Una democrazia coi buchi, come un formaggio svizzero. Lo stesso si verifica quando il multiculturalismo si applica ai culti. Si pretende dalle società liberal-democratiche che si favorisca al loro interno la vita di isole in cui le regole liberal-democratiche vengono sospese. E’ qui che l’ausilio e l’appoggio degli apologeti liberali (“il nemico del mio nemico è mio amico”) diviene importante e viene ricercato. Ciò che è grave è che viene in genere ottenuto.


Animali fantastici e dove trovarli


Benché possa apparire incredibile ed aberrante un’alleanza fra differenzialismo e liberalismo progressista, le valutazioni di Foucault e de Benoist sui diritti umani stanno a dimostrare che irrompere nelle alcove porta a scoprire strani compagni di letto. E’ una notte in cui tutte le vacche sono nere. Ad aggiungere ulteriori elementi di paradossalità è il fatto che questa inclinazione degli anti-relativisti a ricercare sponde fra i relativisti trova l’Italia quale teatro privilegiato della più bizzarra delle sue manifestazioni. Infatti, la culla del cattolicesimo può inaspettatamente vantare uno sparuto drappello di cattolici fra le fila degli apologeti dei culti. E’ una combriccola piccola ma estremamente rumorosa, come sono i cani di piccola taglia. Difficile per un profano capire come sia possibile che i fedeli di una religione che pone alla sua base dei “principi non negoziabili” e che è “universale” per definizione possa difendere culti palesemente anticristiani e accompagnarsi ai fautori dell’antiuniversalismo. E’ difficile, insomma, associare l’idea di relativismo al cattolicesimo. Eppure, Giovanni Jervis, in un profluvio di aggettivi che intagliano con precisione le caratteristiche del modello di cui parla, scrive:


Esiste una sorta di ambiguo relativismo cattolico, buonista, irenico, possibilista, ipertollerante, generico, vago, accettante, benevolente, poco incline ad approfondire, amico dei dialoghi vaghi e talora insulsi e nemico delle discussioni serie, insomma un po’ qualunquista.8


Ecco. L’ecumenismo un po’ stucchevole e alla moda che distingue il cattolico “emancipato” non è un relativismo concreto ed integrale, ma ne ha l’apparenza e ne fa pienamente il gioco. Come giustamente fa notare Jervis,


I cattolici più aperti e democratici, proprio con il loro eccesso di possibilismo relativistico, finiscono col rinunciare a esprimere una critica nei confronti dei fanatici e dei dogmatici di tutte le religioni: compresa, si noti bene, la loro9.


Benchè, insomma, esista una notevole differenza fra il mellifluo relativismo condizionato del cattolico “democratico” e il relativismo scappato per la tangente di certi sedicenti libertari, questo “pensiero debole” cattolico può divenire facile preda di volontà ben più determinate che ne cavalcano le parole d’ordine. E’ vero, come fa notare Jervis, che “il cattolicesimo liberale finisce per fare il gioco del cattolicesimo intransigente”10, ma è anche vero che fa il gioco delle intransigenze di tutti gli altri culti. Non desta quindi sorpresa che le parole d’ordine dell’ecumenismo conciliare siano spesso utilizzate da esponenti di un cattolicesimo tutt’altro che aperto e progressista secondo la stessa logica che vede i proclami più “liberal” in bocca ai santoni più dittatoriali. Tutti calvi che si pettinano.

Si assiste, insomma, ad un coacervo che, come una improbabile chimera, coniuga totalitaristi, liberali e clericali in un’unica schiera. Persone che dovrebbero agire in base alla weberiana etica della responsabilità come i liberali, in combutta con chi quest’etica combatte, come chierici e santoni, fautori dell’ etica del principio (e viceversa…). Roba da mettersi le mani nei capelli. Ad averceli.


1In Ween, F., Come gli stregoni hanno conquistato il mondo, pag. 90, Isbn Edizioni, 2005 (Ed. It.)

2De Benoist, A., Ribelli e Ribellione, Centro Studi Meridie, Testo di una conferenza tenuta a Parigi nel gennaio 2002 http://www.centrostudimeridie.it/documenti/Saggi/ribelli_e_ribellione.htm

3Ferraris, M., Nuovo Realismo, in Rivista di Estetica, 48/2011 https://estetica.revues.org/1538

4Jervis, G., Individualismo e Cooperazione. Psicologia della politica, pag. 138, Bari, Laterza, 2002

5Berti, G., Libertà senza Rivoluzione, pag. 329, Lacaita, Manduria, 2012

7Salvemini, G., da Memorie di un fuoriuscito, a cura di Gaetano Arfè, Feltrinelli, Milano 1960

8Jervis, G., Contro il sentito dire, pag. 265, a cura di M. Marraffa, Bollati Boringhieri, Milano, 2014

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