top of page

Dialogo fra un autodidatta senza decenza e un professore senza docenza

(Al lettore l'assegnazione dei ruoli)


___________________________________________________________________

In anni lontani, Paolo Ranieri ebbe il gentile pensiero di scrivere una "recensione" di un mio scritto (Il cretinismo anarchico. Aggiornamenti). In quello scritto palesavo il mio noto "anti-anarchismo" declinato, però, da una posizione comunque antiautoritaria, diciamo liberal-libertaria. Nella sua "recensione"Paolo come costume, manifestava una spinta pantoclastica ed una feroce verve canzonatoria. Iniziava dandomi del "minus habens" e finiva col definirmi "autodidatta senza decenza". Me l'ero cercata. Nel testo oggetto delle sue attenzioni critiche mi ero riferito al lui quale esemplare di una nota genia di "rivoluzionari di professione (di professione intellettuale, naturalmente)" per stigmatizzare il tipo alla capitan Fracassa che predica la distruzione dell'esistente, ma poi magari fa il ragioniere o il bottegaio. Come sempre e mi veniva attribuita ogni nefandezza ideologica (almeno, tutte quelle che per lui erano tali), dalla società liberale, al mercato, alla civile convivenza, fino ai trapianti d'organo (sic...). Le frasi ad effetto (ma sotto l'effetto niente), la foga predicatoria e lo scoppiettare di slogan dati per riflessioni ne fanno un ottimo esempio di quella sorta di anarchismo che potremmo definire "agostiniano", mirato ad un monoteismo etico ed attuabile solo con la palingenesi.

Segue la mia risposta.

___________________________________________________________________

Da Il Cretinismo anarchico. Aggiornamenti di Luigi Corvaglia

Le volpi sanno molte cose, ma il riccio ne sa una grande.

Archiloco

Paolo Ranieri:

Peccato che il riccio di Archiloco la cosa grande che sa se la tenga per sé, e ci abbia spedito questo minus habens, per informarci delle molte cose che sa, e tuttavia capisce a rovescio. Ve ne sono alcune comunque che non sa, e alcune che crede di sapere ma sono sbagliate. Ad esempio, quando parla di "un noto rivoluzionario di professione (di professione intellettuale, perché di mestiere fa il ragioniere)" comprendo con certezza che sta parlando di me. Pure, non solo mai ho fatto il ragioniere (sia detto anche per la guardia di finanza, ché non vorrei mi incriminassero per attribuzione abusiva di titolo professionale) - ora comunque vendo bottiglie di vino, ma dubito che il fatto mi diminuisca o mi innalzi - ma, con tutta evidenza, non posso essere di professione insieme intellettuale e rivoluzionario, per la contradizion che no'l consente. Come si può comprendere, non professo né questo né quello. Semplicemente, se posso, quando posso, rifletto e mi ingegno di sovvertire uno stato di cose che a me non garba. Si direbbe garbi invece al Corvaglia che pare considerare come propri antagonisti non già coloro che usurpano il potere su questo mondo, ma parecchi dei non moltissimi che questo potere contestano e si sforzano si sabotare magari in maniera confusa.

Impossibile confutare una per una le assurdità pronunciate dal nostro: sono proprio troppe. E impossibile confutarne anche solo le più imbarazzanti, senza prima di tutto avvertire che é l'approccio stesso alla questione ad essere posto a capa sotto e piedi in aria. Alcune pratiche rivoluzionarie attuali, o del passato, possono essere fatte rientrare nella corrente dell'"anarchismo", che comunque solo per Corvaglia può ridursi a un socialismo liberamente scelto: non tutte, io ad esempio, per citarne uno che conosco bene, non mi immagino di essere anarchico, e meno ancora lo affermo.

In alcuni casi, tuttavia, sono i soggetti stessi a pensarsi e a dichiararsi anarchici. Ma anche così, il criterio per misurare la coerenza di una teoria e la sua efficacia, non può sfuggire al confronto fra questa teoria e la prassi attuale, o perlomeno potenziale. In tutte le argomentazioni del Corvaglia, viceversa, la prassi normalmente é totalmente elusa, e se del caso, é chiamata in causa come messa in pratica di una teoria prefabbricata. Il luogo in cui le questioni vengono poste dal Corvaglia, è l'agone delle sole idee. Un esempio?

Scrive:

Cosa spetta, allora, ai libertari? Sfruttare e mantenere le potenzialità liberatorie e impedire quelle autoritarie implicite in ogni forzatura dell’esistente, in ogni atto di violenza, quale appunto la proprietà è. Come disse Goodman, fare in modo che le libertà passate non si tramutino nelle schiavitù di oggi. Immaginiamo, ancora, che, nella condizione pluralistica descritta, un più o meno vasto gruppo di individui condivida l’idea di vivere fuori dalla logica dello scambio, in una condizione di socialismo liberamente scelta e sempre rivedibile. Bene, come si era detto, non è forse l’anarchismo il socialismo consensuale in assenza di autorità centrale? Dov’è, allora, la differenza con la situazione precedentemente considerata? Non ci sarebbe differenza nella situazione in cui l’opzione anarco-socialista fosse accolta da tutti. Enorme differenza nel più probabile caso in cui non tutti fossero entusiasti sostenitori del mutuo appoggio e della messa in comune del mondo. Nell’anarchismo “tradizionale”, a carattere religioso, non esiste spazio per opzioni appena meno libere della libertà totale, al punto da vietare la schiavitù liberamente scelta (extra ecclesiam nulla salus); nella società “liberale”, laica e “di mercato”, ognuno sceglie ciò che vuole. Basti pensare che nella società di mercato è possibile vivere senza mercato, mentre nellacomunità anti-mercato è impossibile vivere producendo e scambiando per capire quale delle due opzioni sia la più “libertaria”. Lo scambio contiene il non scambio, ad esempio. Che il “più” contenga il “meno” dovrebbe essere acquisizione ovvia per chiunque abbia visto una matrioska. Molti gesuiti della “A cerchiata” non l’hanno mai vista. Il pluralismo è base della libertà.

Che belle argomentazioni, vero? Peccato che l'assunto "nella società di mercato è possibile vivere senza mercato" non abbia fondamento nella realtà, mentre pareva filare così bene nelle astrazioni dell'autore. A parte il fatto che la storia, la grande assente del pensiero del Corvaglia, dimostra che il mercato appena esce dall'ambito marginale, necessita di uno stato che lo garantisca, perché altrimenti le pretese proprietarie del mercante non trovano protezione. Ma, più essenziale, il mercante pretende di vendere qualcosa che non é suo, non é più suo che del potenziale acquirente e nemmeno più suo che mio, essendo io quello che passa di là per caso. Perché lo scambio sia realistico, occorre che a monte sia stata affermata la proprietà di ambedue i soggetti dello scambio. La proprietà, non già il possesso che, essendo funzione dell'uso, decadrebbe nel momento stesso in cui uno dichiarerebbe di voler cedere l'oggetto. Ora la proprietà per essere gestibile presuppone l'accordo di tutti, spontaneo o forzoso. L'accordo spontaneo è poco verosimile, perché non si vede perché mai io dovrei spogliarmi dell'uso di qualcosa per cederlo totalmente a te; né vale il discorso della compensazione, perché ciò con cui mi compreresti dovrebbe a sua volta essere qualcosa che, potendo essere mio, tu tratti come tuo. Tuo al punto da poterlo cedere a me. Rimane il consenso forzoso, come usa oggi: come soluzione libertaria, capite che non ci siamo. Il punto che pare sfuggire al nostro filosofo é che la libertà di Essere proprietario riduce perciòstesso la libertà di tutti gli altri, di Sei miliardi di altri. Per questo la pretesa proprietaria, qualora venisse affermata, andrebbe affrontata con la triade perfetta grata al Bakunin, pugnale veleno cappio. Perché é nemica di sei miliardi di libertà, nemica sei miliardi di volte della libertà. Ma l'idea stessa é poco verosimile: dal momento che il desiderio di scambiare, di commerciare, di arricchire, di accumulare, non deriva da una sorta di capriccio come ce lo presenta ingenuamente il Corvaglia: ma dalla volontà di acquisire potere sugli altri, costringendoli a comprare da noi ciò che prima era pacificamente loro.

Quindi non solo le conseguenze sono oggettivamente nemiche della libertà, ma la fonte stessa della proprietà si situa agli antipodi della libertà. Quella che Corvaglia presenta come una stramberia: che molti anarchici vedono l'abolizione della proprietà come PRELIMINARE all'abolizione dello stato, é viceversa il frutto non solo di due secoli di riflessione, ma di due secoli di esperienza sovversiva pratica. Perché, se la proprietà non è abolita, non trasformata in proprietà pubblica, collettiva o simili, ma proprio abolita, lo stato é necessario per salvaguardare appunto la proprietà. Nessuno vuole abolire lo stato, che é quello che salvaguarda te come proprietario, e in misura molto minore, anche te come non proprietario. Ma infatti tutti i pensatori che tanto sono grati al Corvaglia, non sono seguiti nella realtà da nessuno: quelli come Proudhon che lo furono, sono stati dismessi da decenni, se non da secoli. perché l'abolizione dello stato, separata dall'abolizione della proprietà, é pure costruzione mentale, che non corrisponde alle esigenze reali di nessuno. A che cosa mi gioverebbe la scomparsa dello stato, se dovessi tuttavia essere tributario di infiniti proprietari e della loro prepotenza? E infatti non solo quel liberalismo che Corvaglia, dopo averlo separato dal capitalismo, incurante del fatto che sono nati insieme, uno logos dell'altro, riconduce allo “spirito di autodeterminazione dell’individuo, alla lotta contro ogni totalità, ogni assolutismo, politico come religioso, all’ethos che ha sovvertito la staticità pre-moderna fondata sul dato immutabile, sulla gerarchia, sul privilegio per rivendicare autonomia e libera scelta" ci presenta come cugino germano dell'anarchismo - non si evolve minimamente nel senso di una riduzione dello stato, ma é viceversa esso stesso prossimo all'estinzione, avendo perduto la propria funzione di propagandista delle meraviglie della libertà economica. Ormai l'economia ha conquistato il mondo: questi giullari non servono più. La modernità non ha più bisogno di suscitare consensi: anche se ne trova ancora qualcuno nelle periferie del pensiero, là dove trascina la propria sopravvivenza stenta il povero Corvaglia. Il quale mentre rivendica per sé la libertà di intrattenersi con Friedman o simili, nega l'uguale libertà di utilizzare Evola o Nietzsche ad ipotetici altri, giacché lui su qualche bigino (fondato parzialmente per Evola, del tutto improprio per Nietzsche) ha letto trattarsi di autori fascisti. Mostrandosi così non già nemico dell'ortodossia, ma nemico di quelle ortodossie che non sono la sua. Naturalmente poi gli altri sono tutti disinformati, al contrario di lui che é per definizione informatissimo. Il trucco poi, é sempre il solito: gli oppositori sono tutti bigotti, conservatori, custodi dell'ortodossia; lui è invece innovativo, spregiudicato, provocatorio. Per cui chi non é d'accordo con lui, é un paria a priori: come minimo é una vedova dell'ortodossia.

La modernità é bella e buona perché lo afferma lui; lui é bravo e buono perché é a favore della modernità. Un pensiero non meno circolare della banca Mediolanum. Un pensiero costruito intorno a Corvaglia. D'altronde anche la lingua, che a tratti (rende vouz) si direbbe valdostano, l'ha costruita intorno a sé. Libertari rispetto a ogni cosa, non esclusa la camicia di forza dell'ortografia! Salvo poi ricadere nelle più bigotte tassonomie di destra e sinistra, alla maniera della nota rivista di sinistra “A Rivista Anarchica”. Annettendo per di più alla destra uno come Massimo Fini che di destra non fu mai, e anzi fu per esempio uno che da subito, senza le pagliacciate lottacontinuarde, principiò un'indagine indipendente su Piazza Fontana. E allo stesso modo, non ci viene risparmiata la favola del progresso, resa evidente dall'allusione al "medioevo" che essendo venuto prima é, in quanto tale, peggiore. Al Corvaglia evidentemente paiono cose belle e buone la nascita delle carceri, della psichiatria, degli eserciti nazionali, dei passaporti, della ricerca transgenica, delle legislazioni antifumo, antidroga, etc, dello stato-nazione, dei partiti politici, dei sindacati, del welfare, del razzismo, dei trapianti di organo, della misurazione oraria del lavoro, della bomba atomica, della produzione industriale, delle ideologie, di mostruosità come l’Onu, di stati come Israele, del fascismo, del bolscevismo, etc. tutti simpatici regali della modernità, sconosciuti nei medioevi precedenti e ingrati a quelli che lui considera i medievali attuali, coloro che spregiano e rifiutano questa modernità.

In pratica, lui é un altro che parla di cose che non conosce per cercare di affermare una sua idea precostituita a tavolino, nemmeno originale anche se professata da sostenitori sempre più rari (in soldoni l'unica concezione libertaria dell'anarchismo sarebbe quella che lo intende come un liberalismo radicale o, come scrive senza apparente vergogna, un socialismo condiviso da tutti) e che in realtà non spera di smuoversi davvero da quel tavolino.

Si tratta di uno pseudopolemica artificiosa contro gente che nemmeno sa che Corvaglia esiste, destinata a cenacoli di professori senza cattedra, studenti senza borsa, autodidatti senza decenza.

Risponde Luigi Corvaglia

Paolo! Ero veramente preoccupato. Questo mio scritto stava rimanendo privo del tradizionale lancio di escrementi e ci stavo realmente rimanendo male. Temevo non mi amassi più. Devo dire, però, che ti trovo un po' fuori forma. Altre volte sei stato più efficace. Trovo sempre gratuiti alcuni tuoi insulti personali (minus habens, dai, non lo userei neppure per Joe Fallisi...) ma, in genere, li tollero e mi fanno sorridere, perché fungono da spezia di un piatto solitamente gustoso dal punto di vista delle argomentazioni. Argomentazioni - cosa che non hai mai capito - che io condivido quasi totalmente, perché non sono affatto, nonostante le apparenze, quel viscido amante dello status quo che immagini io sia. Faccio solo le pulci ai nostri cuscini perché mi piace la pulizia sotto il deretano. Qui, invece, la spezia rischia di essere solo un mascheramento dell'insipienza. Capisci che in tal caso la spezia è solo disturbante e mi procura sommovimenti in tutte le nobili parti poste al di sotto del diaframma. Devo dire che la lettura della tua ultima "recensione" mi ha dato una sensazione di deja vù (termine valdostano), di precotto riscaldato. E' un discorso che, con verve maggiore, abbiamo fatto già più volte. Intendo dire che tu, come colpito nelle più tenere tue parti dalla logica “liberale” del mio discorso, hai già fatto gli stessi proclami retorici, lo stesso comizio a piazza vuota, e io ti ho già più volte risposto con la pazienza che si riserva allo zio un po’ andato ma simpatico. Per questo motivo ti invio (è in fondo) la chiosa di un nostro vecchio dibattito che si adatta perfettamente a questo piatto scotto. Ora puntualizzo qualcosa prendendo spunto dalle tue critiche.

Tu dici:

Ad esempio, quando parla di "un noto rivoluzionario di professione (di professione intellettuale, perché di mestiere fa il ragioniere)" comprendo con certezza che sta parlando di me. Pure, non solo mai ho fatto il ragioniere (sia detto anche per la guardia di finanza, ché non vorrei mi incriminassero per attribuzione abusiva di titolo professionale) - ora comunque vendo bottiglie di vino, ma dubito che il fatto mi diminuisca o mi innalzi - ma, con tutta evidenza, non posso essere di professione insieme intellettuale e rivoluzionario, per la contradizion che no'l consente.

Intellettuale non ti ho mai pensato. Figurati. Intendevo “professione intellettuale”, non intellettuale di professione. Quanto alla professione reale, più di una persona mi aveva detto che usavi aiutare la tua consorte nel disbrigo di pratiche fiscali. Ora vengo a sapere che svolgi invece il ben più rivoluzionario mestiere del mercante. Non cambia nulla. No, i mestieri non innalzano e non diminuiscono. Quello che volevo dire, con una ironia forse non efficacissima, era che esistono un sacco di rivoluzionari "di professione", molto snob, che a sentirli parlare sono dei matamoros col fallo sempre in tiro, ma poi, quando ascolti meglio, il clangore, più che d' armature, è di mosce rotelline, quali tutti siamo, del grande ingranaggio che ci schiaccia. Eunuchi che si sognano Priapo. Come per tutti, è già molto se si riesce a creare piccoli blocchi, inceppamenti e rotazioni contromano per contrastare questa impotentia coeundi. Diamo l'assalto ad un cielo blu-Viagra.

Continui:

Come si può comprendere, non professo né questo né quello. Semplicemente, se posso, quando posso, rifletto e mi ingegno di sovvertire uno stato di cose che a me non garba. Si direbbe garbi invece al Corvaglia che pare considerare come propri antagonisti non già coloro che usurpano il potere su questo mondo, ma parecchi dei non moltissimi che questo potere contestano e si sforzano si sabotare magari in maniera confusa.

Au contraire (valdostano). Ripeto che mi picco semplicemente di approcciare le cose con occhio analitico, per deformazione psichica e, forse, professionale. Mi pongo nella funzione di avvocato del diavolo per testare ed evidenziare le falle della parte che pure è la mia, per metterne in evidenza aporie che rischiano di essere controproducenti proprio per i fini che sono nostri.

Impossibile confutare una per una le assurdità pronunciate dal nostro: sono proprio troppe. E impossibile confutarne anche solo le più imbarazzanti, senza prima di tutto avvertire che é l'approccio stesso alla questione ad essere posto a capa sotto e piedi in aria. Alcune pratiche rivoluzionarie attuali, o del passato, possono essere fatte rientrare nella corrente dell'"anarchismo", che comunque solo per Corvaglia può ridursi a un socialismo liberamente scelto: non tutte,

Certo, è una semplificazione. Il mutualismo proudhoniano, il collettivismo bakuniniano e l'anarcocomunismo kropotkiniano sono cose diverse. Per tacer dell’idiotismo primitivista di un Zerzan. Eppure sono concezioni accumunate da alcuni tratti che ho, forse arbitrariamente (ma neanche tanto), definito con la formuletta del socialismo liberamente scelto. Famo a capisse, però.

io ad esempio, per citarne uno che conosco bene, non mi immagino di essere anarchico, e meno ancora lo affermo.

Lo so. Come Groucho Marx, non accetteresti mai di entrare in un club che accettasse te fra i suoi soci.

In tutte le argomentazioni del Corvaglia, viceversa, la prassi normalmente é totalmente elusa, e se del caso, é chiamata in causa come messa in pratica di una teoria prefabbricata. Il luogo in cui le questioni vengono poste dal Corvaglia, é l'agone delle sole idee.

Le pratiche sono sempre conseguenza di idee e, se queste sono confuse e contraddittorie, si rischia di fare ciambelle senza buchi e perfino buchi senza ciambelle. Comunque mi sembra che anche tu (salvo stereotipati luoghi comuni dionisiaci e pantaclastici) eluda continuamente la prassi - non hai mai risposto a obiezioni pratiche se non con suggestive espressioni retoriche - in nome di una concezione che, per mantenersi pura e splendente, non deve sporcarsi con la realtà. L'agone delle ideuzze, ovvero un gran bel buco in cerca di una ciambella.

Che belle argomentazioni, vero? Peccato che l'assunto "nella società di mercato è possibile vivere senza mercato" non abbia fondamento nella realtà, mentre pareva filare così bene nelle astrazioni dell'autore. A parte il fatto che la storia, la grande assente del pensiero del Corvaglia, dimostra che il mercato appena esce dall'ambito marginale, necessita di uno stato che lo garantisca, perché altrimenti le pretese proprietarie del mercante non trovano protezione.

Ecco, questo mi sembra uno dei due grossi errori del pensiero anarchico, l'idea che lo stato abbia l'esclusivo compito di bastione del capitalismo e non viceversa. E' il capitalismo as we know it che è un prodotto dello stato. Poi, se la storia è presente nel tuo pensiero, ci deve essere entrata dalla porta di servizio di qualche scuola serale, dato l’inequivocabile dato che il mercato precede di moltissimo la nascita dello stato. Solo con lo stato moderno, però, il mercato è diventato quel mostro onnivoro e autodistruttivo che conosciamo. Comunque, guarda un po', a forza di sporgerti, finisci per cadere... vedo infatti che ammetti che, in assenza di uno stato che lo falsi e lo ipertrofizzi ai suoi lordi fini, il mercato perderebbe le sue potenzialità totalizzanti e oppressive. Lo definisci addirittura “marginale”. Lo hai avventatamente scritto. Quindi, se gli levo il bastione statale, che protegge “le pretese proprietarie”, il “mercato” perisce? Mettiti d'accordo con te stesso prima di produrre i tuoi sproloqui eufonici e taglienti. I tuoi discorsi sono sempre piacevolmente sferraglianti ma, sferraglia sferraglia, il treno deraglia.

Ma, più essenziale, il mercante pretende di vendere qualcosa che non é suo, non é più suo che del potenziale acquirente e nemmeno più suo che mio, essendo io quello che passa di là per caso.

Tu sai che sul piano dei principi concordo completamente. Pragmaticamente, però, se lasciamo a Sant'Agostino il platonismo del principio e approdiamo alla funzionalità (l' etica dei risultati), le cose non possono prevedere che tu che passi abbia maggior o anche egual diritto dei due impegnati nello scambio. L'insicurezza sociale che ne deriverebbe comporterebbe la scomparsa dello scambio e la naturalezza della appropriazione forzosa (forzosa, perché chi ha prodotto la mela che gli vuoi sottrarre non sarà disposto a cedertela) e questo toglierà l'incentivo ai produttori di realizzare beni da scambiare.

Perché lo scambio sia realistico, occorre che a monte sia stata affermata la proprietà di ambedue i soggetti dello scambio. La proprietà, non già il possesso che, essendo funzione dell'uso, decadrebbe nel momento stesso in cui uno dichiarerebbe di voler cedere l'oggetto. Ora la proprietà per essere gestibile presuppone l'accordo di tutti, spontaneo o forzoso. L'accordo spontaneo è poco verosimile, perché non si vede perché mai io dovrei spogliarmi dell'uso di qualcosa per cederlo totalmente a te; né vale il discorso della compensazione, perché ciò con cui mi comperesti dovrebbea sua volta essere qualcosa che, potendo essere mio, tu tratti come tuo. Tuo al punto da poterlo cedere a me.

Qui ti volevo. Troppo banale. Non tieni conto di tutto quanto non ci sarebbe disponibile nemmeno come possesso se altri non fossero spinti a produrlo sulla scorta di incentivi resi possibili dal nostro accordo, che poi, il più delle volte, è semplice acquiescenza. Ricorda che proprio nello scritto che critichi - che poi è frutto di uno “scazzo” dovuto a letture preconcette nei miei confronti, come la tua - affermo che non esiste niente che sia dato in termini sacri, che tutto è frutto di accordi e convenzioni, inclusa la proprietà. Un atto di violenza convenzionale. Solo il moralista può condannare scandalizzato la violenza del sadico in barba ai desideri del masochista. La violenza non è carina, è esteticamente inelegante, però, in una condizione di sganciamento dall'ente monopolista della forza - la cosca vincente nota come stato - l'entità di tale violenza sarebbe limitata, quella possibile in una società in cui tutti dispongano di piccole quote di forza gestibile, quel tipo una società in cui tutti siano forniti di armi da taglio e nessuno di eserciti. La differenza di aggressività e efficacia difensiva dipenderebbe solo dalle differenze individuali. Giusto per fare un esempio, in un mercato vero, porcate di violenza enorme contro le masse disarmate come la TAV non sarebbero neppure immaginabili.

Rimane il consenso forzoso, come usa oggi: come soluzione libertaria, capite che non ci siamo.

No, infatti. Io propongo di passare dal consenso forzoso a quello libero. Dallo stato e dal falso mercato capitalistico e monopolista al libero confronto. Chi vuole opera come vuole. Tu, apologeta della prassi in assenza delle idee, cosa mi proponi, al di là della ricetta di cappio, veleno e pugnale? Del resto, anche per quello dei pugnali, il populista romantico Bakunin, che poi era pure quello della esaltazione del mercato americano e della teorizzazione dello stato unico mondiale, gli individui rimanevano padroni dei frutti del proprio lavoro ("da ciascuno secondo le proprie possibilità, a ciascuno secondo quanto ha fatto!"). C’era in lui perfino una borghesissima concezione retributiva, insomma. Con Kropotkin, buon diavolo ottimista ma sacerdote del culto positivista (e interventista nella I guerra mondiale), invece, l'individuo non è più nemmeno proprietario di ciò che produce ed è totalmente dipendente dalla comunità ed inerme innanzi ad essa, una società uniformata. Comunismo. E come ti sbagli? Proudhon lo diceva chiaro: in tali condizioni è la “società” ad essere proprietaria, non solo dei frutti del lavoro, ma perfino dei lavoratori!

Ora, cioè, tu fammi capire, scendendo dal regno delle idee in cui, secondo te, mi muovo io, a meno che non si voglia abolire qualunque tipo di produzione (come, con un divieto?), come vengono allocate le risorse? E poi, come ne fissi il valore per il baratto, qualora un tizio – situazione che, non so perché, ti ostini a ritenere improbabile - non ti volesse regalare le sue pesche? Temo che anche qui, una volta venute meno l’opzione del dono e quella del baratto con altro bene, che potrebbe non esser grato al tizio dalla scarpe grosse e dal cervello fino, entrerebbero in campo cappio, veleno e coltello. Ecco, per quanto tu ritenga di esser legittimato a questa grassazione perché le pesche, coltivate dal tizio, non sarebbero “sue”, questo sarebbe consenso forzoso. C'è poco da fare; come disse Oppenheimer, ci sono solo due sistemi per ottenere le cose che vogliamo: i mezzi economici, cioè lo scambio, e i mezzi politici, cioè la forza. Tu sei per la seconda. Non mi sembra questa grande idea libertaria. Dici banalità imbellettate senza alcun aggancio con la realtà e io mi muoverei nell'agone delle idee...

Il punto che pare sfuggire al nostro filosofo é che la libertà di essere proprietario riduce per ciò stesso la libertà di tutti gli altri, di sei miliardi di altri.

Il punto non mi sfugge affatto. Come non sfuggiva al a te inviso Proudhon. Lo diceva il buon Pierre che la proprietà è "antisociale", che non può essere diritto naturale, non può basarsi sull'occupazione (perché il mio diritto di occupare un posto a teatro dipende dalla disponibilità del teatro e della quantità degli spettatori, per cui la variabilità non permette di “fissare” diritto alcuno e non può farci considerare proprietari, nemmeno possessori della "terra", ma solo usufruttuari) e nemmeno sul lavoro. Infatti, ciò che noi creiamo col lavoro - che nessuno ci ha, peraltro, richiesto - non è, con buona pace di Locke e dei fetidi anarco-capitalisti, la materia, ma solo ciò che dalla materia ho ricavato. Il pescatore non accampa diritti sul litorale, ma sul pesce. Il contadino, sulle pesche. Come vedi, siamo in pieno accordo io, Pierre-Joseph e te. Almeno fino a che tu, vinaio pigro e abulico, non accampi diritti su pesce e pesche frutto dell’opera di tizi che potrebbero anche essere astemi. Poi mi ripiombi in un romantico mondo di idee, cappi retorici e pugnali roboanti davanti ad argomentazioni per niente contraddittorie rispetto a quelle sopra esposte. Ad esempio, sempre citando il tipografo di Becancon, quando questi, dimostrando una adesione alla realtà sconosciuta all'irrazionalismo panslavo e romantico del tuo Bakunin come all'ottimismo pre-hippie del buon Kropotkin, scrive: "l'unica cosa che sappiamo della proprietà e per la quale possiamo distinguerla dal possesso è che essa è assoluta e abusiva; benissimo: appunto nel suo assolutismo, e nei suoi abusi, per non dire peggio, dobbiamo cercare il suo fine". Cioè, non nel suo principio, nella sua origine o nel suo contenuto, tenuto conto delle quali cose è assolutamente illegittima. Questo atto arbitrario e violento, però, si presenta come un potente strumento di cui il singolo può servirsi per ottenere maggiore libertà dal potere statale, un contrappeso. La forza per contrastare la forza. Eliminato lo stato, la forza per bilanciare altre forze, esattamente come avviene per la forza fisica. Puoi essere pacifista quanto vuoi, ma quando rischi di essere assalito ad ogni angolo, ti conviene armarti. Una logica simile, mi pare, viene portata avanti dagli anarchici più “fattivi” quando esprimono dubbi sulla conduzione di una lotta attendista e gandhiana contro lo stato che è monopolista della violenza. Eri fra questi, mi sembrava. Ti ho sentito dire che la distruzione è creazione. Vedi, darling, la differenza fondamentale fra me e te è che tu funzioni in base ad un programma cognitivo fondato nell'etica dei principi, mentre io opero sulla scorta di un'etica degli effetti (Weber direbbe “della responsabilità”) e dei risultati, utilitaristica. Ovviamente, in un ambito quale quello libertario, agire e parlare in base ad un'etica simile significa non sapersi presentare, non sapersi vendere, è puro masochismo. Si ispira immediata antipatia, con richiami ai quali i fautori della rivoluzione che passa dalla vetrina frantumata non risuonano facilmente, perché uso prosa “impestata”, come dici tu, da concetti “liberali”, immondi per definizione (cioè, per principio). Lo so, è un ruolo ingrato il mio. E' come irrompere nella sala giochi e ricordare che domani inizia la scuola. I grilli parlanti stanno sulle palle e si beccano le scarpate. Perchè sono moralisti? Niente affatto. E' chi ragiona in termini di principio il moralista! E' il medico del bon mot (sempre valdostano) che ha più interesse per l'operazione (perfettamente riuscita) che del paziente (deceduto), è il prete che ha più a cuore il dogma intoccabile e astratto della vita della madre reale a cui vieta l'aborto, è il poliziotto che ha più interesse a far rispettare la legge (data, generalizzata e insensibile) che a rispettare l'uomo (unico e senziente) che la viola, il libertario che porta nel taschino le istruzioni per la libertà “totale” e astratta e la vuole imporre agli uomini veri con le loro individuali concezioni di libertà. La agostiniana libertà maior contr ogni libertà minor. Tutte facce dell'unico diamante del moralismo più becero e pretesco. Con queste persone si può tranquillamente esprimere concetti filo-nazisti, purchè fieramente anti-capitalistici, senza correre simili rischi di anatemi e condanne di abiuria, neppure di essere definiti elegantemente “minus habens”. Fossi più furbo e più ipocrita mi limiterei alle solite litanie di luoghi comuni antiautoritari – che, nel loro nocciolo, condivido totalmente -, mi guarderei bene dall' “impestarmi la prosa” con termini coperti di vergogna (scambio, concorrenza, individuo, ecc.), sorvolerei sulle infinite aporie dei discorsi basati sul puro principio e diventerei uno stimato esponente del tuo country club. Al contrario di te, però, non vorrei mai entrare in un club che non accettasse me fra i suoi soci.

Quindi non solo le conseguenze sono oggettivamente nemiche della libertà, ma la fonte stessa della proprietà si situa agli antipodi della libertà.

Sulla fonte concordo, come hai potuto leggere sopra. Sulle conseguenze, concordo solo nelle condizioni di statualità, per quanto, l'esistenza dello stato senza neppure la proprietà privata sarebbe ancora peggio, come la storia, la grande assente del mio pensiero (ricordi?), insegna. Ma non con la stessa efficacia a tutti i discenti, a quanto pare.

Quella che Corvaglia presenta come una stramberia: che molti anarchici vedono l'abolizione della proprietà come PRELIMINARE all'abolizione dello stato, é viceversa il frutto non solo di due secoli di riflessione, ma di due secoli di esperienza sovversiva pratica.

Non è una stramberia, è frutto di una teoria sbagliata. Pertanto riflettere due secoli su una concezione errata – perché dogmatica - non porta a risultati esaltanti. Quanto all'esperienza sovversiva pratica di altrettanti secoli, non è che ne veda grandi frutti. La sovversione, negli anarchici, in questi termini, è l’altra faccia della medaglia dell’ascetismo, una santità laica tutta furori, bollori e moralismo.

Perché, se la proprietà non é abolita, non trasformata in proprietà pubblica, collettiva o simili, ma proprio abolita, lo stato é necessario per salvaguardare appunto la proprietà.

Sempre in questo scritto ho espresso dubbi sulla possibilità di mantenersi di un sistema anarcocapitalista in assenza dello stato. Concordiamo o no? La proprietà come la conosciamo noi, in assenza di stato, campa stentatamente fuori dagli ambiti, più o meno ristretti (non si programma la libertà), in cui i gruppi umani vorranno tenerla consensualmente in vita. Non è necessario abolirla per spinta esogena. Laddove, invece, si vorrà mantenere, avrà connotati ben lontani da quelli “capitalistici” e abolirla rientrerebbe fra le pratiche missionarie tipiche del pensiero totalitario e moralista del prete, sempre pronto a vietare agli altri quello che non piace a lui solo. Lo scambio di beni quasi fossero nostri ci sembra una perversione? Sarà, ma, come ci ricordava Spooner, i vizi non sono crimini (vietare un vizio, invece, come usa fare lo stato terapeutico, lo sarebbe). Ma dell’elemento relativo alle “merci”, poco mi cale. Tu tendi invece a a glissare su quelli che sono i fatti centrali del discorso libero sperimentale, cioè l’autogestione, la scelta, le alternative di stili di vita, la creazione di norme valide, non su base territoriale, ma insistenti contemporaneamente sul medesimo territorio, in modo “panarchico” e così via. Ti porto una concezione individualista, pluralista e fallibilista, laddove gli utopisti, anarchici inclusi, tendono a vagheggiare omogeneizzazioni e Verità assolute difficilmente traducibili dalla lingua ideale, per quanto forbita e suggestiva, a quella della concretezza, a meno di azioni assolutamente contrarie alla libertà. Tu non rispondi mai alle obiezioni di ordine pratico. MAI.

Nessuno vuole abolire lo stato, che é quello che salvaguarda te come proprietario, e in misura molto minore, anche te come non proprietario.

A me sembra che l'unica cosa che ci distingue e distingua me dagli anarchici, fra le cui fila, per questa lettura, ti trovi comodamente situato, nonostante ti piaccia presentarti quale cantore solitario, sia proprio questo rovesciamento di prospettiva. Lo stato è nemico della proprietà e del mercato, a meno che non si tratti della propria proprietà e del mercato ad esso innervato e da esso addomesticato.

Ma infatti tutti i pensatori che tanto sono grati al Corvaglia, non sono seguiti nella realtà da nessuno:

E questo starebbe a dimostrare il mio errore? Cinquanta milioni di fans di Elvis, come diceva il colonnello Parker, non possono sbagliare? Allora mangiate merda, cinquanta miliardi di mosche non possono sbagliare.

La modernità non ha più bisogno di suscitare consensi: anche se ne trova ancora qualcuno nelle periferie del pensiero, là dove trascina la propria sopravvivenza stenta il povero Corvaglia.

Sul tema della modernità, che non difendo affatto nei suoi termini noti, ricadi in un vecchio misunderstanding (non è valdostano). Ti rimando all'estratto posto in coda.

Il quale mentre rivendica per sé la libertà di intrattenersi con Friedman o simili, nega l'uguale libertà di utilizzare Evola o Nietzsche ad ipotetici altri, giacché lui su qualche bigino (fondato parzialmente per Evola, del tutto improprio per Nietzsche) ha letto trattarsi di autori fascisti.

A parte il fatto che non ho mai espresso giudizi negativi su Nietzsche, al massimo su certo nietzschismo elementare, questo si da bigino, non ho certo l'ardire, che sembri avere tu e molti compagnucci della tua parrocchietta, di fissare un indice dei libri leciti e delle frequentazioni ammissibili. Ho solo detto che è contraddittorio e soprattutto illibertario censurare chi suona e canta fuori dal coro, anche perché ha aggiunto qualche strumento in più, ed etichettarlo quale difensore del mondo borghese e reazionario, essendosi posti su un piedistallo che ha, io credo, qualche carta in più per potersi definire reazionario. Ne evidenzio esclusivamente i rischi di appiattimento sul pensiero unico fascio-libertario. Con intelligenza, tutto si può fare e leggere, figuriamoci. Io, che sono, come tu sai, intelligentissimo (per essere un minus habens, certo), amo intrattenermi anche con Cioran, Celine e Ezra Puond. Quella che vedo latitare è l'intelligente capacità di maneggiare una materia pericolosa come il relativismo culturale e, peggio ancora, il differenzialismo etnico della nouvelle droite (parente del rende vouz). Poi, se affermi che Friedman è più pericoloso di Taguieff e de Benoist, liberissimo di mostrare al mondo la tua logica e la materia di cui sarebbe fatta la prassi che discende dall'iperuranio delle tue pure idee. Sarà anche un luogo comune, ma non c'è niente di più pratico di una buona teoria.

La modernità é bella e buona perché lo afferma lui; lui é bravo e buono perché é a favore della modernità. Un pensiero non meno circolare della banca Mediolanum. Un pensiero costruito intorno a Corvaglia.

Questa è veramente carina. Ma la modernità, come dato di fatto, non è bella e buona. La modernità come principio euristico opposto alla conservazione è buona per contrasto, perché il romanticismo dell'incanto magico del mondo dato e indiscutibile e delle comunità organiche è brutto. Almeno, a me non piace.

Salvo poi ricadere nelle più bigotte tassonomie di destra e sinistra, alla maniera della nota rivista di sinistra A Rivista Anarchica. Annettendo per di più alla destra uno come Massimo Fini che di destra non fu mai, e anzi fu per esempio uno che da subito, senza le pagliacciate lottacontinuarde, principiò un'indagine indipendente su Piazza Fontana

Sarà, ma, anche ammesso, l' anti-modernismo di Movimento Zero è un blob di fetenzie glocaliste e "communitarian"; questo ammettilo tu.

E allo stesso modo, non ci viene risparmiata la favola del progresso,

ah, si? Dove?

resa evidente dall'allusione al "medioevo" che essendo venuto prima é, in quanto tale, peggiore.

Ma no, ma no. Il medioevo è un topos, neppure so quanto rispondente al vero, per definire l' oscurantismo, la superstizione e il misticismo dominanti sulla ragione e l'individuazione . E' termine usato per la sua connotazione. Non attaccarti. Tu, piuttosto, rischi di trovarti in compagnia degli anarco-capitalisti che sono in vena di un forte revival medievalista. Vedi il libro di Piombini "Il medioevo delle libertà" dove si narra della bella epoca in cui gli stati non rompevano ancora le palle e la chiesa regnava indisturbata garantendo la vera libertà. Avete frequentato la stessa scuola serale?

Al Corvaglia evidentemente paiono cose belle e buone la nascita delle carceri, della psichiatria, degli eserciti nazionali, dei passaporti, della ricerca transgenica, delle legislazioni antifumo, antidroga ,etc, dello stato-nazione, dei partiti politici, dei sindacati, del welfare, del razzismo, dei trapianti di organo, della misurazione oraria del lavoro, della bomba atomica, della produzione industriale, delle ideologie,di mostruosità come l’Onu, di stati come Israele, del fascismo, del bolscevismo, etc. tutti simpatici regali della modernità, sconosciuti nei medioevi precedenti e ingrati a quelli che lui considera i medievali attuali, coloro che spregiano e rifiutano questa modernità.

Ma il vino ti limiti a venderlo? Israele e i trapianti d'organo? E la caduta dei capelli non è forse un prodotto della modernità? Senti, innanzitutto, solo sul tuo libro di testo il razzismo, la diffidenza per il diverso è frutto della modernità, perchè è risaputo che invece è tipico delle società “organiche” e delle concezioni “democratiche” sul modello polis. Una concezione che si ripresenta nella infelice mente dei nostalgici dell’organicità dei bei tempi che furono, cioè nei partigiani dell’ anti-modernità, tipo i fascisti, e, talvolta, nei fautori delle democrazie “giacobine”. Gli antisemiti, ad esempio, si ritrovano tranquillamente nell’uno e nell’altro partito. Ecco, questi sono i nemici della modernità. Sembra che ti ci trovi più a tuo agio. Poi, non essere manicheista. Sei più intelligente di quanto i tuoi insulsi schematismi non vogliano far credere. Molta roba non mi piace ( i trapianti d'organo, si, però). Tu descrivi la modernità in termini storici e la rigetti per la presenza di alcuni elementi e il medioevo lo apprezzi per l'assenza di altri, ben sapendo che si potrebbe fare anche il ragionamento inverso (cosa esiste nella modernità, perfino in quella storica, e cosa esisteva nel medioevo. Pensa alla teocrazia, pensa alla mancanza di idea della soggettività, ad esempio).

La tua idea sembra essere, ma so che non è così, che se una cosa è brutta, il suo contrario è bello et bonum. Tu ben sai, come più volte ti ho spiegato, che spesso, il contrario del male è il peggio.

Si tratta di uno pseudopolemica artificiosa contro gente che nemmeno sa che Corvaglia esiste, destinata a cenacoli di professori senza cattedra, studenti senza borsa, autodidatti senza decenza.

Forse sono un autodidatta senza decenza, però non è una pseudopolemica. E' una polemica che trova la sua ragion d'essere in tutto quello che ho detto. Se poi quello antagonista deve essere un mondo monolitico in cui chiunque esprime una idea differente viene visto come uno che rema contro per fini indegni, temo che ad essere senza decenza sia chi esprime detto giudizio.

_____________________________

Sotto l'estratto da un vecchio battibecco fra noi due che mi permette di evitare di ripetermi : Ok, Paolo, però per completare il discorso vorrei aggiungere poche considerazioni. Innanzitutto ritengo che attorno all’unico sostanziale elemento di contrasto fra noi, quello cioè relativo all’ethos liberale che mi rimproveri, esista una cortina fumogena costituita da problemi formali e di lessico, legati cioè alla polisemia dei termini. Non parlo solo della “società di mercato”, ma anche del concetto di società in sé, per esempio. Se per te “società” è la codificazione ed istituzionalizzazione dei sistemi umani, io sono asociale quanto te. Da quelle che però tu chiami “relazioni gratuite” nascono momentanei equilibri dinamici, mutevoli sistemi d’interazione che, come dici, riordinano infaticabilmente il mondo. E’ questo che io chiamo libero confronto. Similmente, quando parlo di modernità questa non è definita in termini storici ( che altrimenti sarebbe la contemporaneità tutto compreso, intendo dire fatti, culture dominanti, stili di vita, ecc.), bensì come un afflato che nasce sotto la forma della rottura e della lotta contro il già dato e l’eterno che rappresentavano l’orizzonte degli antichi e che si manifesta ad un certo punto della storia come aperta ostilità nei confronti dell’assolutismo, del privilegio, del misticismo, della gerarchia e dell’autorità nel nome della individuazione e dell’autonomia. Pertanto di tutto ciò che permette il libero confronto e la libera sperimentazione. Le rivoluzioni sono il prodotto, e contemporaneamente le produttrici, della modernità. Ne deriva che tutto ciò che porta ad invertire questo processo, che cioè comporti un prevalere del tutto sulla parte, dell’ eterodirezione sulla scelta autonoma, del mistico sul secolare, dello stabile ed eterno sul dinamico e momentaneo, dell’accentrato e centralizzato sul distribuito e decentrato, del territorializzato sul nomade, è antimoderno anche se contemporaneo. E’ Nico Berti, piuttosto, quello che si è recentemente prodotto in una apologia della contemporaneità reale, nonché della civiltà occidentale, e che ha posto il capitalismo così come lo conosciamo alla base del processo di sviluppo della libertà individuale quando, al limite, questo è stato piuttosto una conseguenza dell’ethos che ha reso possibile la soggettività dell’individuo. Ora, Berti non c’è e quindi non voglio infierire, però lo uso per fornirti un criterio di paragone per differenziare la mia posizione dalla sua, quella alla quale meglio si attaglierebbero le tue critiche. Ancora, quando ho espresso la mia critica all’ utopismo non era minimamente mia intenzione deridere chi vuole cambiare radicalmente il mondo, chessò gli anarchici – persone a cui generalmente tale etichetta si affibbia – ma mettere in evidenza come le caratteristiche utopiche più deteriori (prescrittività, naturalismo, ecc.) siano patrimonio proprio di quelle teorie a cui più difficilmente si tende ad applicarle (vedi il socialismo o perfino a “democrazia”). Pertanto io non descrivo affatto gli anarchici “come fossero tutti Kropotkin”, anzi dico proprio che solo gli anarchici possono, paradossalmente, scoprirsi i più realisti, sempre se si sforzano di non essere Kropotkin (o Zerzan o Bookchin o…). Insomma, quando si usano termini vaghi, oppure in genere diversamente connotati o, peggio, compromessi, si corrono dei rischi di fraintendimento. Ricordo, ad esempio, il tuo utilizzo in passato del termine “comunismo” al quale davi un senso alquanto alieno a quello in uso nel catechismo marxista. Un altro motivo di fraintendimento lo vedo nel fatto che, etichettatomi in un certo modo, tendi a leggere alcuni riferimenti in modo consono alla tua lettura. Così se è chiara la squadra per cui “non tifo”, quelli cioè di cui “parlo male”, tu pensi di individuare quella per cui tifo sulla base dei personaggi che cito. E cito Popper, ad esempio, e Hume (ma non Hobbes..). Se però ti rileggi il testo vedrai che la loro partecipazione è limitata al ruolo di epistemologi, di filosofi della conoscenza. Non mi interessano affatto dal lato “politico” (figurati Hobbes…). La “società aperta” mi va stretta. Nella mia squadra ci metterei, titolari, Proudhon, Malatesta, Berneri, Tucker, Merlino, Warren, in panchina un gruppo miscellaneo che va dal giovane Marx a Salvemini.

Detto tutto ciò, mi viene più facile chiarire cosa intendo per ethos liberale, ossia un conato di modernità, la spinta alla lotta contro l’assoluto, il carburante per la costruzione dell’individuo contro ogni missione che lo travalichi e lo mortifichi. In quest’ottica la tua idea che dalla congiunzione fra anarchismo e liberalismo venga fuori uno “stento aborto” si rivela fallace perché immagini l’ innesto di una idea aliena su un corpo rigettante, cosa che non risponde al vero. Non solo quella liberale è da sempre una delle anime dell’anarchismo, affiorante di tanto in tanto perfino nei più socialisti dei suoi esponenti, ma addirittura, io credo, il liberalismo così inteso finisce col coincidere con l’anarchismo. Basta non farsi sviare dalle parole. So di averti nuovamente assassinato il ragù…

PS

Non per insistere, ma quello che ti ha toccato Fourier, ti giuro, non ero io.

_____________________________________________________________________________

Nota: Come sempre, quando si ha a che fare con chierici e missionari vari, una volta finita la retorica da compiacente parterre e messi davanti a argomentazioni meno fumose, a risposte puntuali e, soprattutto, a domande birichine, i confratelli della palingenesi tacciono. Anche in questa occasione, Monsignore non si è smentito. Rimango in attesa della prossima omelia anarco-assolutista.

Post correlati

Mostra tutti
bottom of page