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Michel Onfray. Il post-anarchismo spiegato a mia nonna (Eleuthera, Milano, 2013)

Luigi Corvaglia

Anarchici a Lilliput

Ignoro cosa la vegliarda abbia compreso delle idee del nipote, ma è un fatto che ne Il post-anarchismo spiegato a mia nonna (Eleuthera, Milano, 2013) il capitolo meno comprensibile è proprio quello in cui si dovrebbe spiegare ciò che il titolo promette. Quanto al resto, se immaginiamo di seguire il discorso di Michel Onfray davanti a the e pasticcini preparati dalla vecchia, lo smilzo pamphlet è molto piacevole. Questa immagine conviviale ci permette di essere indulgenti di fronte a una certa carenza di rigore che troveremmo disdicevole in un’aula d’accademia o in un dibattito fra “tecnici”. Del resto, nelle appena 90 pagine del libro non c’è spazio per analisi approfondite. Come conseguenza di ciò, qualche affermazione tanto perentoria quanto superficiale può risultare solo discutibile (per esempio “per sdoganare Stirner come un anarchico bisogna non aver letto L’Unico e la sua proprietà”, a pag. 37). Ad ogni modo, niente di scandaloso al livello di quanto altri, ben più blasonati, sono riusciti a produrre in spazi simili. Penso, ad esempio, all’imbarazzante libretto in cui Colin Ward si produsse in una sorta di “bignami” dell’anarchismo con risultati ridicoli (sempre a proposito di Stirner, l’inglese ammise: “l’ho sempre trovato incomprensibile” )[i].

In definitiva, il concetto espresso da Onfray è semplice: “Gli anarchici istituzionali amano la liturgia, recitano il catechismo, si genuflettono davanti ai sacri testi delle loro biblioteche e coltivano la ferrea certezza che le soluzioni per il ventunesimo secolo si trovino in scritti coevi all’invenzione della macchina a vapore” (pp. 41-42). Causa di ciò la genealogia hegeliana della preponderante tradizione anarchica russo-tedesca (Bakunin è il rovescio di Marx, insomma) a cui, forse con un certo sciovinismo, l’autore contrappone una tradizione francese che vede la sua punta di diamante in Proudhon. Questi, privo di una concezione teleologica, storicistica e romantica “parla di <<anarchia positiva>> e non vuole finire in due strade senza sbocco: L’anarchia del risentimento, così ben analizzata da Nietzsche, e l’anarchia dell’utopia, quella che vuole realizzare il paradiso in terra.” (pag. 43). Giusto. Ma la proposta pragmatica? Un anarchismo da vivere, nel presente, a piccoli passi e in personali scelte esistenziali (l’autore si gloria delle sue per un po’ di pagine) e non nell’attesa messianica di una fine della Storia. Onfray invita a mettere giù il megafono e agire. Ma come è possibile agire? Efficacissima, a questo proposito, l’immagine dei lillipuziani che bloccano il gigante, non grazie al potere di uno solo, ma grazie alla moltiplicazione di tanti minuscoli legacci. “Chiamo principio di Gulliver – scrive Onfray – questa logica nuova, più modesta, più umile, meno ostentata, ma che mette fine al modello messianico e religioso” (pag. 91). Fatto è che non è chiarissimo in cosa si concretizzino queste micro-azioni di “socialismo libertario”, anche perché, rifacendosi l’autore a Foucault, non solo i contro-poteri hanno da essere microfisici, ma lo stesso potere non si può immaginare, nel tempo post-moderno, quale un Gulliver macrofisico. Il tallone d’Achille del discorso onfreiano, come di tutto il cosiddetto “post-anarchismo”, insomma, è che, tolta l’affascinante make up del “post-strutturalismo” di Foucault, Deleuze e compagnia cantante, tutto scoppiettanti neologismi “rizomatici” e formule dal sapore zen risciacquate nella psicoanalisi di Lacan (“L’uomo parla perché il simbolo lo ha fatto tale”, ad esempio) non rimane che un vuoto in cui rimbombano poche buone idee che proprio il post-strutturalismo renderebbe impraticabili. Infatti, come giustamente nota Nico Berti nel recente Libertà senza Rivoluzione (Lacaita, Manduria, 2013), la visione post-strutturalista comporta “l’afona riduzione dell’individuo in carne ed ossa a soggetto linguisticamente scomponibile. La sua riduzione ne permette infatti la completa dissoluzione (…) la sua autonomia è zero. (pag. 313). Insomma, non esistono i lillipuziani, esattamente come non è individuabile Gulliver. E’ lo stesso Foucault che lo dichiara: “noi ignoriamo ancora cosa sia il potere, questa cosa enigmatica, a volte visibile e invisibile, presente e assente, investita in ogni parte” (Microfisica del potere[ii]). Insomma, come ebbe a dire Eduardo Colombo: “davanti a un potere anonimo e generalizzato, senza responsabili, la ribellione diventa inutile”[iii]. Niente lillipuziani, niente Gulliver, niente legacci, niente rivolta. Ecco allora che, in un libello simpatico e leggero, le pagine che tracciano una “genealogia del post-anarchismo” diventano un percorso ad ostacoli dove si incontrano, senza spiegarli, i luoghi comuni della french theory, dai micro-fascismi deluziani, all’economia libidinale di Lyotard, al ruolo architettonico dell’amicizia in Derrida, e ci lasciano una strana vertigine. Ma è necessario tutto questo per proporre il mutualismo proudhoniano e un libertarismo non devoto? Il francese conosce a menadito la tradizione del suo paese, ma non sembra aver dimestichezza con Occam e il suo benemerito rasoio. Ecco perché non credo che la nonna abbia capito.

[i] Ward C., Anarchia. Un approccio essenziale, Eleuthera, Milano, 2008

La mia recensione: http://tarantula.ilcannocchiale.it/post/1848165.html

[ii] In Berti, N., op. cit. pag. 315

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