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Nico Berti. Libertà senza rivoluzione (Lacaita, Manduria, 2013)

Per farla finita con l’anarchismo agostiniano

di Luigi Corvaglia



Liberi. Si, i degenti dell’ospedale di “Qualcuno voló sul nido del cuculo” erano liberi di andarsene. Quando McMurphy, il personaggio interpretato da Jack Nicholson, scoprí che la maggior parte dei degenti era in regime di ricovero volontario, ma non lasciava l’istituzione, comprese la lezione di Etienne de La Boétie: gli uomini si sottopongono volontariamente al potere. Jean-Paul Sartre e Albert Camus lo avevano detto che, pur in una istituzione diluita quale é la nostra società, gli uomini sono sempre liberi. Se così non fosse, nota Nico Berti nel suo ultimo libro (Libertà senza rivoluzione. L’anarchismo fra la sconfitta del comunismo e la vittoria del capitalismo, Lacaita, Manduria), se insomma “gli uomini non fossero radicalmente liberi – cioé liberi alla radice – ogni idea di emancipazione umana sarebbe una semplice assurdità e l’anarchia, naturalmente, sarebbe la massima assurdità possibile e immaginabile”. Non é un caso che al battesimo della modernità un campione della reazione quale fu de Maistre si scagliasse proprio contro “la pazza asserzione: l’uomo é nato libero!”. E’ infatti questa idea, espressione di ciò che Max Weber definì il “disincanto”, a fondare il concetto di responsabilità individuale. Il lavoro di Berti parte appunto da questo presupposto per arrivare a cantare il requiem per la prospettiva rivoluzionaria quale mezzo per l’emancipazione umana. Le masse, infatti, non sono rivoluzionarie, perché hanno liberamente scelto di non esserlo. “Chi da, allora, il diritto ai rivoluzionari di insorgere contro il volere della maggioranza delle persone?” Nessuno. Certo, qualcuno, come fece Giovanna D’Arco con la voce di Dio, può sempre ascoltare la Storia che gli sussurra nell’orecchio, perché “ogni pensare rivoluzionario è un pensare storicistico”, quindi una forma di costruttivismo utopico che è incarnazione di un’anima totalitaria. Il problema, infatti, non è il metodo. Il problema è la forma della “società futura”. Se, infatti, si vagheggia una società nuova che universalizzi il bene supremo della libertà e si strutturi staticamente come luogo senza frizioni, é evidente che ci troviamo nell’ambito della prescrittività tipica della concezione democratico-giacobina. Questa si svolge sotto l’angosciante ombra di quella libertà positiva tesa alla realizzazione della pienezza delle potenzialità umane. E’, in fondo, la secolarizzazione della tesi teologica di Agostino per cui l’uomo diviene veramente libero quando riesce a volere solo il Bene. Ma, come scriveva Berdjaev: “Ogni confusione e identificazione della libertà con il bene stesso e la perfezione equivale a negare la libertà, a riconoscere la via della violenza e della costrizione”.

Anni fa, Thomas Ibanez aveva descritto un simile cortocircuito logico. “Volendo essere una teoria centrata sulla libertà – aveva scritto Ibanez – , l’anarchismo apre su una cultura che esige l’adesione di ognuno per poter esistere e che contesta la legittimità di tutto ciò che non è sé stessa”. L’anarchismo, in altre parole, sembra negare se stesso ed esitare in una cultura totalitaria. Vero, ma ad una condizione: che lo si faccia coincidere proprio con questa reductio ad unum, cioè con un progetto che, in nome del Bene, finisce col sacrificare il molteplice (cioè tutti gli spazi di libertas minor, come direbbe Agostino) al singolare (libertas maior). Monoteismo etico. Per molto tempo la libertas maior degli anarchici è stata il socialismo, nelle sue varie declinazioni. Il dilemma di Ibanez, altrimenti irrisolvibile, appare però illusorio se sostituiamo alla collettiva libertà democratica l’individuale autodeterminazione liberale. Immaginiamo una società che ricerchi solo la mancanza di costrizione, che risponda, cioè, ai criteri per la “società aperta” come descritta da Popper. Questa prevede una inversione di quello che Rawls definirebbe l’”ordine lessicale”, cioè la subordinazione dell’anticapitalismo ad un principio guida, la libertà. Che in tal caso sia facile uscire fuori dal paradosso di Ibanez lo dimostra chiaramente lo stesso Berti quando, a pag. 229, risponde ai critici della cultura liberale entro la quale egli ritiene si debba partire per attualizzare l’anarchismo. Per i detrattori del liberalismo anche questo è una forma di pensiero unico che finisce per creare una sorta di totalitarismo. “Come dire: anche il liberalismo ha un fondo antiliberale”. Ora, quando anche si desse l’improbabile condizione di una completa comunione di vedute, ciò non comporterebbe alcun totalitarismo, perché esso consiste, piuttosto, “in una uniformità coatta di vedute”. La libertà liberale, che è negativa, semplice mancanza di coercizione e, quindi, non prescrive, non può produrre esiti totalitari. Ce lo ricordava Rudolf Rocker: “molte strade portano alla dittatura dalla democrazia, nessuna dal liberalismo”. Insomma, qualcuno potrà sempre essere libero di essere socialista o mussulmano, “ma si è sempre nella più perfetta libertà anche di negare a questo qualcuno la libertà – la sua – di imporre coattivamente ad altri la sua fede.” Non più utopia, questa è, per dirla con Nozick, una “impalcatura per utopie” (cioè, politeismo etico). Insomma, visto in questi termini, il paradosso di Ibanez viene degradato a “gioco di parole”. Altrimenti torna S. Agostino. Poco importa, quindi, che leggendo il suo libro si abbia talvolta l’impressione che il critico dello storicismo descriva un andamento obbligato della storia (“Kant e McDonalds prima o poi arrivano dappertutto”) o che dalle pagine possa trasparire una fin troppo gioiosa “resa” alla razionalità strumentale del “capitalismo”. Chiunque fissasse la sua attenzione su questi aspetti si dimostrerebbe simile al tizio che guarda il dito piuttosto che la luna. Nell’analisi di Berti è presente un dubbio sensato e una domanda ineludibile: consegnato al cimitero delle idee l’agostinismo libertario, l’anarchismo può essere solo inveramento del liberalismo?

Nico Berti. Libertà senza rivoluzione (Lacaita, Manduria, 2013)
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